Traduzione Libro V (5 cinque) De Bello Gallico
[1] Sotto il consolato di L. Domizio e Ap. Claudio, Cesare, al momento di
lasciare i quartieri invernali per recarsi in Italia, come di consueto
ogni anno, ordina ai legati preposti alle legioni di costruire, durante
l'inverno, il maggior numero possibile di navi e di riparare le vecchie.
Ne indica la struttura e la forma: per garantire rapide operazioni di
imbarco e per tirarle con facilità in secco, le costruisce lievemente più
basse delle navi di solito impiegate nel nostro mare e, tanto più perché
aveva saputo che qui, per il frequente alternarsi delle maree, le onde
sono meno alte, allo scopo di facilitare il trasporto del carico e dei
giumenti, le rende un po' più larghe delle imbarcazioni che usiamo negli
altri mari. Ordina di costruirle tutte leggere, e a tale scopo
contribuiscono molto i bordi bassi. Comanda di far pervenire dalla Spagna
tutto il necessario per equipaggiarle. Dal canto suo, tenute le sessioni
giudiziarie in Gallia cisalpina, parte per l'Illirico, perché aveva
sentito che i Pirusti, con scorrerie, stavano devastando le regioni di
confine della nostra provincia. Una volta sul posto, chiede alle
popolazioni truppe in rinforzo e ordina di concentrarle in un luogo
stabilito. I Pirusti, appena lo sanno, inviano a Cesare emissari: gli
spiegano che tutto era accaduto senza una deliberazione ufficiale e si
dichiarano pronti a qualsiasi risarcimento dei danni. Dopo averli
ascoltati, Cesare esige ostaggi e fissa il giorno della consegna; in caso
contrario, dichiara che avrebbe mosso guerra. Secondo gli ordini,
consegnano gli ostaggi il giorno stabilito ed egli, per dirimere le
controversie tra le città, nomina dei giudici incaricati di calcolare i
danni e di stabilire i risarcimenti.
[2] Dopo tali provvedimenti e tenute le sessioni giudiziarie, Cesare ritorna
nella Gallia cisalpina e, da qui, parte alla volta dell'esercito. Appena
giunto, ispeziona tutti i campi invernali e trova che, nonostante la
carenza estrema di materiale, i soldati, grazie al loro straordinario
impegno, avevano costruito circa seicento imbarcazioni del tipo già
descritto e ventotto navi da guerra, in grado di essere varate entro pochi
giorni. Elogiati i soldati e gli ufficiali preposti ai lavori, impartisce
le istruzioni e ordina a tutti di radunarsi a Porto Izio, da dove sapeva
che il passaggio in Britannia era assai agevole, perché la distanza dal
continente era di circa trenta miglia: lasciò un presidio giudicato
sufficiente per tale operazione. Egli, alla testa di quattro legioni senza
bagagli e di ottocento cavalieri, punta sui territori dei Treveri, popolo
che non si presentava alle assemblee, non ubbidiva agli ordini e, a quel
che si diceva, sollecitava l'intervento dei Germani d'oltre Reno.
[3] I Treveri possiedono, tra tutti i Galli, la cavalleria più forte in
assoluto e una fanteria numerosa. I loro territori raggiungono, come si è
detto in precedenza, il Reno. Tra i Treveri due uomini lottavano per il
potere: Induziomaro e Cingetorige. Quest'ultimo, non appena giunge notizia
dell'arrivo di Cesare con le legioni, gli si presenta e, confermandogli
che lui e tutti i suoi avrebbero rispettato gli impegni assunti senza
tradire l'amicizia del popolo romano, lo mette al corrente della
situazione. Induziomaro, invece, inizia a raccogliere cavalieri e fanti e
a prepararsi alla guerra; chi, per ragioni d'età, non poteva combattere,
era stato posto al sicuro nella selva delle Ardenne, una foresta enorme,
che dal Reno attraverso la regione dei Treveri si estende sino al confine
dei Remi. Ma quando alcuni principi dei Treveri, spinti dai loro legami di
amicizia con Cingetorige e spaventati dall'arrivo del nostro esercito, si
recarono da Cesare e, non potendo provvedere per la nazione, cominciarono
a presentargli richieste per se stessi, anche Induziomaro, nel timore di
rimaner completamente solo, gli inviò emissari: non aveva voluto
abbandonare i suoi e presentarsi di persona a Cesare soltanto per poter
garantire, con maggior facilità, il rispetto degli impegni assunti; c'era
il rischio che il popolo, una volta lontani tutti i nobili, commettesse
imprudenze; i Treveri, dunque, erano sotto la sua autorità ed egli, se
Cesare lo permetteva, si sarebbe recato nell'accampamento romano per porre
se stesso e la propria gente sotto la sua protezione.
[4] Cesare, anche se capiva i motivi che avevano spinto Induziomaro a parlare
in tali termini e che cosa lo inducesse a rinunciare al piano intrapreso,
tuttavia, per non trovarsi costretto, con la spedizione per la Britannia
già pronta, a passare l'estate nelle terre dei Treveri, gli ordinò di
presentarsi con duecento ostaggi. Dopo che Induziomaro ebbe consegnato gli
ostaggi, tra cui suo figlio e tutti i suoi parenti, espressamente
richiesti, Cesare lo trattò con benevolenza, lo invitò a rispettare gli
impegni; comunque, convocati i capi dei Treveri, li riconciliò uno a uno
con Cingetorige, non solo in considerazione dei meriti da lui acquisiti,
ma anche perché riteneva molto importante favorire al massimo l'autorità
di Cingetorige tra i Treveri, data la straordinaria devozione del Gallo
nei suoi confronti. Fu un duro colpo per Induziomaro veder diminuito il
suo prestigio tra i Treveri: se già prima il suo animo ci era ostile,
adesso l'ira lo inasprì maggiormente.
[5] Sistemata la questione, Cesare con le legioni raggiunse Porto Izio. Qui
apprese che sessanta navi, costruite nelle terre dei Meldi, erano state
respinte da una tempesta e non avevano potuto tenere la rotta, per cui
erano rientrate alla base di partenza; trovò, però, le altre pronte a
salpare ed equipaggiate di tutto punto. Qui lo raggiunsero contingenti di
cavalleria da ogni parte della Gallia, per un complesso di circa
quattromila uomini, insieme ai principi dei vari popoli: ne lasciò in
Gallia ben pochi, quelli di provata lealtà; gli altri aveva deliberato di
portarseli dietro in qualità di ostaggi, perché temeva, in sua assenza,
una sollevazione della Gallia.
[6] Tra gli altri c'era l'eduo Dumnorige, di cui abbiamo già parlato. Fu uno
dei primi che Cesare decise di tenere con sé, conoscendone il desiderio di
rivolgimento, l'ambizione di comandare, la forza d'animo e il grande
prestigio tra i Galli. Inoltre, nell'assemblea degli Edui, Dumnorige aveva
detto che Cesare gli aveva offerto il regno: ciò non piaceva affatto agli
Edui, ma non osavano inviare messi a Cesare per opporsi o per invitarlo a
desistere. Della faccenda Cesare era stato informato dai suoi ospiti.
Dumnorige, in un primo tempo, ricorse a ogni sorta di preghiere per
riuscire a restare in Gallia: disse di aver paura del mare, inesperto
com'era di navigazione, addusse come scusa un impedimento d'ordine
religioso. Quando vide le sue richieste tenacemente respinte, persa ogni
speranza di raggiungere il suo scopo, cominciò a sobillare i principi
della Gallia e a terrorizzarli; li prendeva in disparte, li spingeva a non
lasciare il continente: non era un caso se la Gallia veniva privata di
tutti i nobili; si trattava di un piano di Cesare, che, non avendo il
coraggio di eliminarli sotto gli occhi dei Galli, li portava in Britannia
per ucciderli; come garanzia per loro, Dumnorige dava la propria parola,
ma ne esigeva la promessa, con giuramento solenne, di provvedere di comune
accordo a ciò che ritenevano l'interesse della Gallia. Le mosse di
Dumnorige vennero riferite a Cesare da più d'uno.
[7] Non appena lo seppe, Cesare, in quanto attribuiva molto prestigio al
popolo eduo, stimava necessario tenere a freno e dissuadere Dumnorige con
qualsiasi mezzo. E vedendo che la follia del Gallo non faceva che crescere
sempre di più, passò alle misure necessarie per evitare danni a sé e alla
repubblica. Così, nel periodo in cui fu costretto a rimanere a Porto Izio,
circa venticinque giorni, perché il vento coro, che in quella regione
soffia pressoché costante in ogni epoca dell'anno, impediva la
navigazione, Cesare si adoperava per tenere al suo posto Dumnorige e per
conoscerne, al tempo stesso, tutti i piani. Alla fine, sfruttando il tempo
propizio alla navigazione, ordina ai soldati e ai cavalieri di imbarcarsi.
Ma mentre tutti erano intenti a tale operazione, Dumnorige, alla testa dei
cavalieri edui, si allontana dal campo e si dirige in patria, all'insaputa
di Cesare. Appena informato, sospesa la partenza e rimandata ogni altra
faccenda, Cesare lancia all'inseguimento di Dumnorige il grosso della
cavalleria e comanda di ricondurlo all'accampamento; se si fosse ribellato
e non avesse eseguito gli ordini, dà disposizione di ucciderlo, non
attendendosi nulla di sensato, in propria assenza, da un uomo che aveva
dissubbidito al suo cospetto. All'intimazione di tornare indietro,
Dumnorige comincia a opporre resistenza, si difende con la forza,
scongiura i suoi di osservare i patti, proclamandosi più volte, a gran
voce, uomo libero di un popolo libero. I Romani, conforme agli ordini, lo
circondano e lo uccidono: tutti i cavalieri edui ritornano da Cesare.
[8] Dopo tali avvenimenti, Cesare lasciò Labieno sul continente con tre
legioni e duemila cavalieri, per difendere i porti, provvedere alle scorte
di grano, tenersi al corrente della situazione in Gallia e prendere
decisioni sulla base del momento e delle circostanze. Dal canto suo, salpò
alla testa di cinque legioni e di tanti cavalieri, quanti ne aveva
lasciati in terraferma; fece vela verso il tramonto, al soffio leggero
dell'africo, che però cessò verso mezzanotte, impedendogli di tenere la
rotta: spinto piuttosto lontano dalla marea, all'alba vide che aveva
lasciato la Britannia alla sua sinistra. Allora, sfruttando, adesso, la
marea, che aveva cambiato direzione, a forza di remi cercò di raggiungere
la zona dell'isola che - lo sapeva dall'estate precedente - consentiva un
comodissimo accesso. Nel corso della manovra, veramente lodevole fu
l'impegno dei soldati: pur con navi da trasporto appesantite dai carichi,
senza mai smettere di remare, riuscirono a uguagliare la velocità delle
navi da guerra. Approdò in Britannia con tutte le navi verso mezzogiorno,
senza alcun nemico in vista; come apprese in seguito dai prigionieri, i
Britanni, giunti sul luogo con truppe numerose, erano rimasti atterriti
alla vista della nostra flotta: erano apparse, contemporaneamente, più di
ottocento unità, comprese le navi dell'anno precedente e le imbarcazioni
private che alcuni avevano costruito per propria comodità. Quindi, i
nemici avevano abbandonato il litorale e si erano rifugiati sulle alture.
[9] Cesare provvide allo sbarco dell'esercito e alla scelta di un luogo adatto
per il campo. Non appena dai prigionieri seppe dove si erano attestate le
truppe nemiche, lasciò nella zona costiera dieci coorti e trecento
cavalieri a presidio delle navi e, dopo mezzanotte, mosse contro i nemici,
senza alcun timore per le imbarcazioni, lasciate all'ancora su un litorale
in lieve pendio e senza scogli; lasciò a capo del distaccamento e delle
navi Q. Atrio. Dopo aver percorso, di notte, circa dodici miglia, Cesare
avvistò i nemici, che dalle alture, con la cavalleria e i carri,
avanzarono verso il fiume: qui, stando in posizione più elevata,
impedirono ai nostri di procedere e attaccarono battaglia. Respinti dalla
cavalleria, cercarono rifugio nelle selve, sfruttando una zona
egregiamente difesa dalla conformazione naturale e da fortificazioni
allestite già in passato, probabilmente in occasione di guerre interne:
avevano abbattuto molti alberi, disponendoli in modo da precludere ogni
accesso. I Britanni, disseminati qua e là, combattevano dall'interno delle
selve e ostacolavano l'ingresso dei nostri nella loro roccaforte. Ma i
soldati della settima legione, dopo aver formato la testuggine ed essere
riusciti a costruire un terrapieno fino ai baluardi nemici, presero la
postazione dei Britanni e, subendo poche perdite, li costrinsero a
lasciare le selve. Ma Cesare ordinò di non proseguire l'inseguimento, sia
perché non conosceva la zona, sia perché era già giorno inoltrato e voleva
dedicare le ultime ore di luce a rinsaldare le difese del proprio campo.
[10] La mattina successiva, inviò all'inseguimento del nemico in fuga tre
colonne di legionari e cavalieri. I nostri avevano già percorso un certo
tratto ed erano ormai in vista dei primi fuggiaschi, quando alcuni
cavalieri inviati da Q. Atrio raggiunsero Cesare per riferirgli che la
notte precedente era scoppiata una violentissima tempesta: quasi tutte le
navi avevano subito danni ed erano state sbattute sul litorale; non
avevano retto né le ancore, né le gomene; nulla avevano potuto marinai e
timonieri contro la violenza della tempesta: le navi avevano cozzato le
une contro le altre, riportando gravi danni.
[11] Informato dell'accaduto, Cesare ordina alle legioni e alla cavalleria di
ritornare e di resistere durante il rientro; lui personalmente raggiunge
le navi. Constata, con i suoi occhi, che la situazione all'incirca
corrispondeva alle informazioni ricevute dalla lettera e dai messi:
risultavano perdute circa quaranta navi, ma le altre sembravano
riparabili, sia pur con grandi fatiche. Così, tra i legionari sceglie dei
carpentieri e ne fa arrivare altri dal continente. Scrive a Labieno di
costruire, con le legioni a sua disposizione, quante più navi possibile.
Sebbene l'operazione risultasse molto complicata e faticosa, decide che la
soluzione migliore consisteva nel tirare in secco tutte le navi e
congiungerle all'accampamento con una fortificazione unica. I lavori
richiedono circa dieci giorni, durante i quali i soldati non si concedono
mai una sosta, neppure di notte. Tirate in secco le imbarcazioni e ben
munito il campo, lascia a presidio delle navi le stesse truppe di prima e
ritorna da dove era venuto. Appena giunto, vede che già si erano lì
radunate, ben più numerose di prima, truppe nemiche provenienti da tutte
le regioni: il comando supremo delle operazioni era stato affidato, per
volontà comune, a Cassivellauno, sovrano di una regione separata dai
popoli che abitavano lungo il mare da un fiume chiamato Tamigi e distante
dal mare circa ottanta miglia. In passato, tra Cassivellauno e gli altri
popoli c'era stata continua guerra, ma adesso i Britanni, preoccupati per
il nostro arrivo, gli avevano conferito il comando supremo delle
operazioni.
[12] Nella parte interna della Britannia gli abitanti, secondo quanto essi
stessi dicono per remota memoria, sono autoctoni, mentre nelle regioni
costiere vivono genti venute dal Belgio a scopo di bottino e di guerra e
che, dopo la guerra, si erano qui insediate dandosi all'agricoltura: quasi
tutte queste genti conservano i nomi dei gruppi di origine. La popolazione
è numerosissima, molto fitte le case, abbastanza simili alle abitazioni
dei Galli, elevato il numero dei capi di bestiame. Come denaro usano rame
o monete d'oro, oppure, in sostituzione, sbarrette di ferro di un
determinato peso. Le regioni dell'interno sono ricche di stagno, sulla
costa si trova ferro, ma in piccola quantità; usano rame importato. Ci
sono alberi d'ogni genere, come in Gallia, tranne faggi e abeti. La loro
religione vieta di mangiare lepri, galline e oche, animali che essi,
comunque, allevano per proprio piacere. Il clima è più temperato che in
Gallia, il freddo meno intenso.
[13] L'isola ha forma triangolare, con un lato posto di fronte alla Gallia: un
angolo di questo lato, verso il Canzio, dove approdano quasi tutte le navi
provenienti dalla Gallia, è rivolto a oriente; l'altro, più basso, guarda
a meridione. Questo lato è lungo circa cinquecento miglia. Un altro lato è
volto verso la Spagna e occidente: su questo versante c'è l'Ibernia,
un'isola che si reputa circa la metà della Britannia e che da essa dista
tanto quanto la Britannia stessa dalla Gallia. A metà strada si trova
un'isola chiamata Mona; inoltre, si ritiene che ci siano molte altre isole
minori lungo la costa: alcuni hanno scritto che in esse, nel periodo del
solstizio d'inverno, la notte dura trenta giorni consecutivi. Noi non
siamo riusciti a raccogliere altre notizie in proposito, malgrado le
nostre domande; abbiamo solo constatato che qui le notti, misurate con
precisione mediante clessidre ad acqua, sono più brevi rispetto al
continente. La lunghezza di questo lato, secondo l'opinione degli autori
citati, è di settecento miglia. Il terzo lato è rivolto a settentrione:
nessuna terra gli sta di fronte, ma un suo lembo guarda essenzialmente
verso la Germania. Si ritiene che si estenda per ottocento miglia. Così,
il perimetro totale dell'isola risulta di duemila miglia.
[14] Tra tutti i popoli della Britannia, i più civili in assoluto sono gli
abitanti del Canzio, una regione completamente marittima non molto
dissimile per usi e costumi dalla Gallia. Gli abitanti dell'interno, per
la maggior parte, non seminano grano, ma si nutrono di latte e carne e si
vestono di pelli. Tutti i Britanni, poi, si tingono col guado, che produce
un colore turchino, e perciò in battaglia il loro aspetto è ancor più
terrificante; portano i capelli lunghi e si radono in ogni parte del
corpo, a eccezione della testa e del labbro superiore. Hanno le donne in
comune, vivendo in gruppi di dieci o dodici, soprattutto fratelli con
fratelli e genitori con figli; se nascono dei bambini, sono considerati
figli dell'uomo che per primo si è unito alla donna.
[15] I cavalieri e gli essedari nemici si scontrarono duramente con la nostra
cavalleria in marcia, che però ebbe il sopravvento in ogni settore e li
respinse nelle selve e sui colli. I nostri, però, dopo averne uccisi
molti, li inseguirono con eccessiva foga e riportarono alcune perdite. I
Britanni per un po' attesero, poi, all'improvviso, dalle selve si
precipitarono sui nostri, che non se l'aspettavano ed erano intenti ai
lavori di fortificazione: assalite le guardie di fronte all'accampamento,
si batterono accanitamente. Cesare inviò in aiuto due coorti - le prime di
due legioni - che si schierarono a brevissima distanza l'una dall'altra.
Ma mentre i nostri erano atterriti dalla nuova tattica di combattimento
degli avversari, i Britanni, con estrema audacia, sfondarono il fronte tra
le due coorti e, quindi, ripararono in salvo. Quel giorno perde la vita Q.
Laberio Duro, tribuno militare. I nemici vengono respinti grazie all'invio
di altre coorti a rinforzo.
[16] Nel suo insieme, il tipo di battaglia, svoltasi sotto gli occhi di tutti,
davanti all'accampamento, ci permise di capire che i nostri non erano
preparati ad affrontare un avversario del genere: appesantiti
dall'armamento, i Romani non erano in grado di inseguire i nemici in fuga,
né osavano allontanarsi dalle insegne. I cavalieri, poi, correvano grossi
rischi nella mischia, perché gli avversari per lo più cedevano, anche di
proposito: quando erano riusciti a portare i nostri cavalieri abbastanza
lontano dalle legioni, scendevano dai carri e, a piedi, combattevano in
posizione di vantaggio. Così, la natura degli scontri di cavalleria era
identica per chi inseguiva e per chi si ritirava, presentando pari
pericolo per entrambi. Inoltre, i nemici non lottavano mai in formazione
serrata, ma a piccoli gruppi molto distanziati, disponendo postazioni di
riserva: a turno gli uni subentravano agli altri, soldati freschi e
riposati davano il cambio a chi era stanco.
[17] L'indomani i nemici si attestarono sui colli, lontano dall'accampamento.
Cominciarono ad avanzare in ordine sparso e a sfidare la nostra cavalleria
con minor foga del giorno precedente. Ma nel pomeriggio, dopo che Cesare
aveva inviato in cerca di foraggio tre legioni e tutta la cavalleria agli
ordini del legato C. Trebonio, all'improvviso i nemici piombarono su di
essi da ogni direzione, stringendosi attorno alle insegne e alle legioni.
I nostri, con un veemente assalto, li respinsero e li incalzarono: i
cavalieri, contando sull'appoggio delle legioni, che vedevano alle spalle,
costrinsero i nemici a una fuga precipitosa, ne fecero strage e non
diedero loro la possibilità né di raccogliersi, né di attestarsi o di
scendere dai carri. Questa fuga provocò subito la dispersione delle truppe
ausiliarie dei Britanni, che erano giunte da ogni regione: in seguito, il
nemico non ci avrebbe più affrontato con l'esercito al completo.
[18] Cesare, informato delle intenzioni dei Britanni, condusse l'esercito nelle
terre di Cassivellauno, verso il Tamigi, fiume che può essere guadato a
piedi solo in un punto, e a stento. Appena giunto, si rese conto che
sull'altra sponda erano schierate ingenti forze nemiche. La riva, poi, era
difesa da pali aguzzi piantati nel terreno, così come altri simili,
sott'acqua, erano celati dal fiume. Messo al corrente di ciò dai
prigionieri e dai fuggiaschi, Cesare mandò in avanti la cavalleria e
ordinò alle legioni di seguirla senza indugio. I nostri, pur riuscendo a
tenere fuori dall'acqua solo la testa, avanzarono con una rapidità e un
impeto tale, che gli avversari, non essendo in grado di reggere
all'assalto delle legioni e della cavalleria, abbandonarono la riva e
fuggirono.
[19] Cassivellauno - lo abbiamo detto in precedenza - persa ogni speranza di
proseguire nello scontro aperto, aveva congedato il grosso dell'esercito e
con solo circa quattromila essedari sorvegliava i nostri movimenti: si
teneva a poca distanza dalle strade, nascosto in luoghi di difficile
accesso e fitti di boschi; nelle zone per cui sapeva che dovevamo
transitare cacciava via bestiame e popolazione dalle campagne nelle
foreste. Quando la nostra cavalleria si spingeva troppo in là nei campi,
per saccheggiare e devastare, lungo tutte le strade e i sentieri, dai
boschi Cassivellauno lanciava all'attacco i carri e combatteva con i
nostri con tale rischio per loro, da costringerli, per il timore di
scontri, a non spingersi troppo distante. A Cesare non restava che
impedire alla cavalleria di allontanarsi troppo dal grosso delle legioni
in marcia, e accontentarsi di danneggiare i nemici devastandone le
campagne e appiccando incendi, per quanto lo potevano i legionari,
impegnati in marce faticose.
[20] Nel frattempo giunge a Cesare un'ambasceria da parte dei Trinovanti, il
più potente, o quasi, tra i popoli di quelle regioni. In passato, uno di
essi, il giovane Mandubracio, si era posto sotto la protezione di Cesare e
lo aveva raggiunto sul continente: suo padre era diventato re ed era stato
ucciso da Cassivellauno, mentre lui si era salvato con la fuga. Gli
ambasciatori dei Trinovanti, promettendo resa e obbedienza, chiedono a
Cesare di tutelare Mandubracio dai soprusi di Cassivellauno e di inviarlo
al suo popolo per diventarne il capo e assumere il potere. Cesare esige da
loro quaranta ostaggi e grano per l'esercito e invia Mandubracio. I
Trinovanti eseguirono rapidamente gli ordini e mandarono gli ostaggi,
secondo il numero fissato, e il grano.
[21] Vedendo i Trinovanti protetti e al sicuro da ogni attacco militare, i
Cenimagni, i Segontiaci, gli Ancaliti, i Bibroci e i Cassi mandarono a
Cesare ambascerie per arrendersi. Da essi seppe che, non lontano, sorgeva
la roccaforte di Cassivellauno difesa da selve e paludi, dove erano stati
concentrati uomini e bestiame in numero ragguardevole. I Britanni, in
effetti, chiamano roccaforte una selva impraticabile munita da vallo e
fossa, dove di solito si raccolgono per sottrarsi alle incursioni dei
nemici. Lì Cesare si diresse con le legioni: si imbatté in un luogo
estremamente ben protetto sia dalla conformazione naturale, sia dall'opera
dell'uomo. Nonostante ciò, intraprese l'assedio su due fronti. I nemici
opposero una breve resistenza, ma non riuscirono a frenare l'assalto dei
nostri e cercarono di mettersi in salvo da un'altra parte della
roccaforte. Qui venne trovato un gran numero di capi di bestiame e molti
dei fuggiaschi furono catturati e uccisi.
[22] Nel corso di tali avvenimenti, Cassivellauno invia dei messi nel Canzio,
regione che si affaccia sul mare - lo si è già ricordato - e che era
governata da quattro re: Cingetorige, Carvilio, Taximagulo e Segovace. A
essi ordina di raccogliere tutte le loro truppe e di sferrare un
improvviso attacco all'accampamento navale romano, ponendolo sotto
assedio. Appena i nemici giunsero al campo, i nostri effettuarono una
sortita e ne fecero strage: catturato anche il loro capo, Lugotorige, di
nobile stirpe, rientrarono sani e salvi. Quando gli fu annunciato l'esito
della battaglia, Cassivellauno, visti i tanti rovesci, i territori
devastati e scosso, soprattutto, dalle defezioni, invia, tramite
l'atrebate Commio, una legazione a Cesare per trattare la resa. Cesare
aveva deciso di svernare sul continente per prevenire repentine
sollevazioni in Gallia e si rendeva conto che, volgendo ormai l'estate al
termine, i nemici potevano con facilità temporeggiare. Perciò, chiede
ostaggi e fissa il tributo che la Britannia avrebbe dovuto pagare
annualmente al popolo romano. A Cassivellauno proibisce formalmente di
arrecar danno a Mandubracio o ai Trinovanti.
[23] Consegnati gli ostaggi, riconduce l'esercito sulla costa, dove trova le
navi riparate. Dopo averle calate in acqua, decise di trasportare
l'esercito in due viaggi, poiché aveva molti prigionieri e alcune navi
erano state distrutte dalla tempesta. Ma ecco che cosa capitò: di tante
navi, in tante traversate, non ne era andata perduta neppure una che
trasportasse soldati, né quell'anno, né l'anno precedente; delle
imbarcazioni, invece, che gli venivano rinviate vuote dal continente (che
si trattasse delle navi di ritorno dal primo viaggio dopo aver sbarcato le
truppe, oppure delle sessanta costruite in un secondo tempo da Labieno),
pochissime erano giunte a destinazione, quasi tutte le altre erano state
ributtate sulla costa. Cesare le attese per un po' inutilmente; poi, per
evitare che la stagione - l'equinozio era vicino - impedisse la
navigazione, fu costretto a stipare i soldati un po' più allo stretto del
solito. Levate le ancore subito dopo le nove di sera, trovò il mare molto
calmo e all'alba prese terra: aveva portato in salvo tutte le navi.
[24] Dopo aver tratto in secca le navi e tenuto l'assemblea dei Galli a
Samarobriva, vista la magra annata per il grano a causa della siccità, fu
costretto a disporre i quartieri d'inverno in modo diverso rispetto agli
anni precedenti e a ripartire le legioni su più territori. Ne inviò una
presso i Morini sotto la guida del legato C. Fabio, un'altra con Q.
Cicerone dai Nervi, una terza con L. Roscio nella regione degli Esuvi;
ordinò che una quarta legione, al comando di T. Labieno, svernasse nei
territori dei Remi, al confine con i Treveri; ne stanziò tre nel paese dei
Belgi, alle dipendenze del questore M. Crasso e dei legati L. Munazio
Planco e C. Trebonio. Una legione, di recente arruolata al di là del Po,
venne mandata, insieme a cinque coorti, fra gli Eburoni, che per la
maggior parte abitano tra la Mosa e il Reno e sui quali regnavano
Ambiorige e Catuvolco. Il comando ne fu affidato ai legati Q. Titurio
Sabino e L. Aurunculeio Cotta. Ripartite così le truppe, stimava di poter
ovviare, con grande facilità, alla penuria di grano. Gli accampamenti
invernali di tutte le legioni non distavano, comunque, più di cento miglia
l'uno dall'altro, eccezion fatta per le milizie di L. Roscio, che però
doveva condurle in una zona del tutto tranquilla e sicura. Dal canto suo,
Cesare decise di fermarsi in Gallia fino a conferma ricevuta che le
legioni erano stanziate nelle rispettive zone e che gli accampamenti erano
stati fortificati.
[25] Tra i Carnuti viveva una persona di nobili natali, Tasgezio, i cui
antenati avevano regnato sul paese: Cesare gli aveva restituito il rango
degli avi, in considerazione del suo valore e della sua fedeltà, dato che
in tutte le guerre Cesare si era avvalso del suo contributo incomparabile.
Tasgezio era già al suo terzo anno di regno, quando i suoi oppositori lo
eliminarono con una congiura, mentre anche molti cittadini avevano
appoggiato apertamente il piano. La cosa viene riferita a Cesare, che,
temendo una defezione dei Carnuti sotto la spinta degli oppositori -
parecchi erano implicati nella vicenda - ordina a L. Planco di partire al
più presto dal Belgio alla testa della sua legione, di raggiungere il
territorio dei Carnuti e di passarvi l'inverno: chiunque gli risultasse
implicato nell'uccisione di Tasgezio, doveva essere arrestato e inviato a
Cesare. Nello stesso tempo, tutti gli ufficiali preposti alle legioni
informano Cesare che erano giunti ai quartieri d'inverno e che le
fortificazioni erano ormai ultimate.
[26] Circa quindici giorni dopo l'arrivo agli accampamenti invernali,
improvvisamente scoppiò un'insurrezione guidata da Ambiorige e Catuvolco.
Costoro si erano presentati al confine dei loro territori, a disposizione
di Sabino e di Cotta e avevano consegnato grano all'accampamento; in
seguito, però, spinti dai messi del trevero Induziomaro, avevano chiamato
i loro a raccolta e, sopraffatti i nostri legionari in cerca di legna, con
ingenti forze avevano stretto d'assedio il campo. Mentre i nostri
impugnavano rapidamente le armi e salivano sul vallo, i cavalieri
spagnoli, usciti da una porta del campo, sferravano un attacco in cui
ebbero la meglio: gli avversari, persa ogni speranza di vittoria, furono
costretti a togliere l'assedio. Poi, a gran voce, come è loro costume,
chiesero che qualcuno dei nostri si facesse avanti per parlamentare:
avevano da riferire informazioni d'interesse comune, grazie alle quali
speravano di poter risolvere i contrasti.
[27] Al colloquio viene inviato C. Arpineio, cavaliere romano, parente di Q.
Titurio, insieme a uno Spagnolo, un certo Q. Giunio, che in passato, per
incarico di Cesare, si era già più volte recato da Ambiorige. A essi
Ambiorige parlò come segue: ammetteva i molti debiti di riconoscenza nei
confronti di Cesare (grazie al suo intervento era stato sollevato dal
tributo che pagava abitualmente agli Atuatuci, popolo limitrofo; Cesare
gli aveva restituito suo figlio e il figlio di suo fratello, che, inclusi
nel novero degli ostaggi, erano tenuti asserviti in catene dagli
Atuatuci); quanto all'assedio al campo romano, aveva agito non di
iniziativa o volontà propria, ma costretto dal popolo, e la sua sovranità
stava in questi termini: la sua gente aveva nei suoi confronti gli stessi
diritti che aveva lui nei confronti della sua gente. Il popolo, d'altro,
canto, era insorto perché non aveva potuto opporsi alla repentina
formazione di una lega dei Galli. E prova evidente di ciò era la sua
debolezza: non era tanto sprovveduto da confidare, con le proprie truppe,
in una vittoria sul popolo romano. Si trattava, piuttosto, di un piano
comune a tutti i Galli: era stato deciso di assediare, in quel giorno,
tutti i campi invernali di Cesare, in modo che nessuna legione fosse in
grado di soccorrerne un'altra. Come potevano dei Galli, con facilità,
opporre un rifiuto alla proposta di altri Galli, soprattutto quando
sembrava mirare alla riconquista della libertà comune? Se, dunque, prima
aveva aderito alla lega dei Galli per amor di patria, adesso teneva conto
del suo dovere per i benefici ricevuti da Cesare: avvertiva, supplicava
Titurio, in nome dei loro vincoli d'ospitalità, di provvedere a porsi in
salvo con i propri soldati. Un forte esercito di mercenari germani aveva
attraversato il Reno: sarebbero giunti nell'arco di due giorni. Spettava
ai Romani la decisione di far uscire dall'accampamento i soldati prima che
i Galli vicini se ne accorgessero, e condurli da Cicerone o da Labieno,
distanti l'uno circa cinquanta miglia, l'altro poco più. Prometteva e
giurava dar via libera sul proprio territorio. Agendo così, avrebbe
provveduto al bene della propria gente, perché veniva liberata dal campo
romano, e ricambiato i servigi di Cesare. Ciò detto, Ambiorige si
allontana.
[28] Arpineio e Giunio riferiscono le parole di Ambiorige ai legati, che,
turbati dagli eventi repentini, stimavano di dover dar peso alle
informazioni, per quanto fornite dal nemico. Li spingeva, soprattutto, una
considerazione: era ben poco credibile che un popolo così oscuro e debole
come gli Eburoni avesse osato, di propria iniziativa, muovere guerra a
Roma. Perciò, rimandano la questione al consiglio di guerra, dove si
verificano forti contrasti. L. Aurunculeio, seguito da molti tribuni
militari e dai centurioni più alti in grado, era dell'avviso di non
prendere iniziative avventate e di non lasciare i quartieri d'inverno
senza ordine di Cesare; spiegavano che, essendo il campo fortificato, era
possibile tener testa alle truppe dei Germani, per quanto numerose; lo
testimoniava il fatto che avevano retto con grandissimo vigore al primo
assalto e avevano inflitto al nemico gravi perdite; la situazione delle
scorte di grano non era preoccupante; nel frattempo, sia dai campi più
vicini, sia da Cesare sarebbero arrivati rinforzi; infine, cosa c'era di
più avventato o vergognoso che deliberare su questioni gravissime, per
suggerimento dei nemici?
[29] A ciò Titurio obiettava, gridando, che si sarebbero mossi tardi, con le
forze avversarie ormai più consistenti per l'arrivo dei Germani oppure
dopo qualche disastro negli accampamenti vicini. Avevano poco tempo per
decidere. Riteneva che Cesare fosse partito per l'Italia, altrimenti i
Carnuti non avrebbero preso la decisione di eliminare Tasgezio, né gli
Eburoni, se lui era presente in Gallia, avrebbero marciato sul campo con
tanto disprezzo per le nostre forze. Le proposte del nemico non
c'entravano, si trattava di valutare la situazione: il Reno era vicino; la
morte di Ariovisto e le nostre precedenti vittorie avevano costituito un
gran dolore per i Germani; la Gallia bruciava per le molte umiliazioni
subite, per dover sottostare al dominio del popolo romano, per l'antica
gloria militare oscurata. Infine, ma chi poteva convincersi che Ambiorige
avesse assunto una decisione del genere senza uno scopo ben preciso? La
sua proposta era sicura in entrambi i casi: se non si verificava nulla di
grave, avrebbero raggiunto la legione più vicina, senza rischi; se,
invece, la Gallia era tutta d'accordo con i Germani, l'unica speranza di
salvezza era riposta nella rapidità. Il parere di Cotta e di chi
dissentiva, a cosa portava? Se per il presente non rappresentava un
pericolo, certo avrebbero dovuto temere la fame, in un lungo assedio.
[30] Mentre così si discuteva, da una parte e dall'altra, visto che Cotta e i
centurioni più alti in grado si opponevano con tenacia, Sabino disse: "E
va bene, se proprio lo volete", e a voce più alta, per essere sentito da
un gran numero di soldati, proseguì: "Non sarò certo io quello che, in
mezzo voi, si lascia spaventare di più dalla paura della morte; ma saranno
loro a giudicare e a chiedere conto a te, se succede qualcosa di grave,
loro, che se tu lo consentissi, potrebbero raggiungere dopodomani
l'accampamento più vicino e affrontare le vicende della guerra insieme
agli altri, invece di crepare per mano nemica o sfiniti dalla fame,
abbandonati e lontani da tutti".
[31] Si alzano dal consiglio, prendono nel mezzo entrambi i legati e li pregano
di non portare la situazione al massimo rischio con il loro dissenso
ostinato; la faccenda era facile sia rimanendo, sia levando le tende,
purché tutti fossero dello stesso avviso e partito; in caso di disaccordo,
invece, non intravedevano alcuna speranza di salvezza. La discussione
prosegue fino a notte fonda. Alla fine Cotta, turbato, si dà per vinto:
prevale il parere di Sabino. La partenza viene annunciata per l'alba. Il
resto della notte la passano a vegliare, ogni soldato valuta che cosa
possa prendere con sé e quali oggetti dell'accampamento invernale debba
abbandonare per forza. Le pensano tutte pur di non garantire, la mattina
dopo, una partenza priva di rischi, e di aumentare il pericolo con la
stanchezza dei soldati, dovuta alla veglia. All'alba lasciano il campo,
non come se fossero stati persuasi dal nemico, ma quasi che avessero
accolto il suggerimento di un amico di provata lealtà, Ambiorige.
L'esercito in marcia formava una schiera interminabile, con numerosissimi
bagagli.
[32] I nemici, quando dall'agitazione notturna e dalla veglia prolungata, si
resero conto che i nostri preparavano la partenza, tesero insidie da due
lati, nella boscaglia, su un terreno favorevole e coperto, a circa due
miglia dal campo, in attesa dell'arrivo dei Romani. Allorché il grosso del
nostro esercito era ormai entrato in un'ampia valle, all'improvviso, dai
fianchi della medesima sbucarono i nemici e iniziarono a premere sulla
retroguardia, a impedire all'avanguardia di salire, costringendo i nostri
a combattere in condizioni assolutamente sfavorevoli.
[33] Solo allora Titurio, che nulla aveva previsto, cominciò ad agitarsi, a
correre qua e là, a disporre le coorti, ma sempre impaurito: sembrava che
tutto gli venisse a mancare, come per lo più accade a chi è costretto a
decidere proprio mentre l'azione è in corso. Cotta, invece, che aveva
pensato all'eventualità di un attacco durante la marcia e che, perciò, non
era stato fautore della partenza, non risparmiò nulla per la salvezza di
tutti e, chiamando e incoraggiando i legionari, durante la battaglia,
svolgeva le funzioni di comandante e di soldato. La lunghezza della
colonna rendeva più difficile provvedere a tutto personalmente e impartire
gli ordini necessari in ogni settore della battaglia, perciò i comandanti
diedero disposizione, passando la voce, di abbandonare i bagagli e di
assumere la formazione a cerchio. La manovra, anche se in circostanze del
genere non è riprovevole, si risolse in un danno: diminuì la fiducia dei
nostri soldati e rese più arditi i nemici, perché sembrava che fosse stata
fatta per estremo timore e scoraggiamento. Inoltre, accadde l'inevitabile:
i soldati, ovunque, si allontanavano dalle insegne, ciascuno correva ai
bagagli per cercare e riprendersi le cose più care, tutto risuonava di
grida e pianti.
[34] I barbari, invece, si dimostrarono avveduti. Infatti, i loro capi
passarono ordine a tutto lo schieramento che nessuno si allontanasse dal
proprio posto: era preda riservata per loro tutto ciò che i Romani
avessero abbandonato, quindi dovevano pensare che tutto dipendeva dalla
vittoria. Il loro coraggio era pari al loro numero. I nostri, benché
abbandonati dal comandandante e dalla Fortuna, tuttavia riponevano ogni
speranza di salvezza nel proprio valore, e ogni volta che una coorte
muoveva all'assalto, in quel settore cadeva un gran numero di nemici.
Appena se ne accorge, Ambiorige passa voce di scagliare dardi da lontano,
senza avvicinarsi, cedendo là dove i Romani avessero sferrato l'attacco:
grazie alle loro armi leggere e all'esercizio quotidiano avrebbero potuto
infliggere ai Romani gravi perdite; quando i nostri si fossero ritirati
verso le insegne, dovevano inseguirli.
[35] L'ordine venne scrupolosamente eseguito dai barbari: quando una coorte
usciva dalla formazione a cerchio e attaccava, i nemici indietreggiavano
in gran fretta. Al tempo stesso era inevitabile che quel punto rimanesse
scoperto e che sul fianco destro piovessero dardi. Poi, quando i nostri
iniziavano il ripiegamento verso il settore di partenza, venivano
circondati sia dai nemici che si erano ritirati, sia dagli altri che erano
rimasti fermi nelle vicinanze. Se, invece, volevano tenere le posizioni,
non avevano modo di esprimere il proprio valore, né di evitare, così
serrati, le frecce scagliate da una tal massa di nemici. Comunque, pur
travagliati da tante difficoltà e nonostante le gravi perdite, resistevano
e, trascorsa già gran parte del giorno - si combatteva dall'alba ed erano
ormai le due di pomeriggio - non si piegavano a nulla che fosse indegno di
loro. A quel punto T. Balvenzio, che l'anno precedente era stato
centurione primipilo, soldato coraggioso e di grande autorità, viene
colpito da una tragula, che gli trapassa tutte e due le cosce; Q. Lucanio,
anch'egli primipilo, mentre combatteva con estremo valore, perde la vita
nel tentativo di recare aiuto al figlio circondato; il legato L. Cotta,
mentre stava incitando tutte le coorti e le centurie, viene colpito da un
proiettile di fionda in pieno volto.
[36] Scosso da tali avvenimenti, Q. Titurio, avendo scorto in lontananza
Ambiorige che spronava i suoi, gli invia il proprio interprete, Cn.
Pompeo, per chiedergli salva la vita per sé e i legionari. Ambiorige alla
richiesta risponde: se Titurio voleva un colloquio, glielo concedeva;
sperava di poter convincere le truppe circa la salvezza dei soldati
romani; Titurio stesso, comunque, non avrebbe corso alcun rischio, se ne
rendeva garante di persona. Titurio si consiglia con Cotta, ferito: gli
propone, se era d'accordo, di allontanarsi dalla battaglia e di recarsi
insieme a parlare con Ambiorige: sperava di riuscire a ottenere salva la
vita per loro e per i soldati. Cotta risponde che non si sarebbe mai
recato da un nemico in armi e non recede dalla sua decisione.
[37] Ai tribuni militari che, al momento, aveva intorno a sé e ai centurioni
più alti in grado, Sabino dà ordine di seguirlo. Essendosi avvicinato ad
Ambiorige, gli viene ingiunto di gettare le armi: esegue l'ordine e
comanda ai suoi di fare altrettanto. E mentre trattavano delle condizioni
di resa e Ambiorige, di proposito, tirava in lungo il suo discorso, a poco
a poco Sabino viene circondato e ucciso. A quel punto, com'è loro costume,
i nemici levano alte grida di vittoria, si lanciano all'assalto,
scompaginano i ranghi dei nostri. L. Cotta cade combattendo sul posto,
come la maggior parte dei nostri. Gli altri si rifugiano nell'accampamento
da cui erano partiti. Tra di essi, L. Petrosidio, aquilifero, attaccato da
molti avversari, gettò l'aquila all'interno del vallo e cadde battendosi
da vero eroe dinanzi all'accampamento. I nostri, a malapena, riescono a
reggere agli attacchi nemici fino al calar delle tenebre; di notte, senza
più speranze di salvezza, si tolgono la vita tutti, sino all'ultimo. I
pochi superstiti raggiungono, per vie malsicure tra le selve, il campo del
legato T. Labieno e lo informano dell'accaduto.
[38] Imbaldanzito dalla vittoria, Ambiorige con la cavalleria si dirige verso
gli Atuatuci, che confinavano col suo regno. Non interrompe la marcia né
di notte, né di giorno e ordina alla fanteria di tenergli dietro.
Illustrato l'accaduto e spinti gli Atuatuci alla ribellione, il giorno
seguente raggiunge i Nervi e li spinge a non perdere l'occasione di
rendersi per sempre liberi e di vendicarsi dei Romani per le offese
ricevute. Racconta che due legati erano stati uccisi e il grosso
dell'esercito eliminato; non era affatto difficile cogliere di sorpresa la
legione che svernava con Cicerone e distruggerla; promette il suo aiuto
nell'impresa. Con tali parole persuade facilmente i Nervi.
[39] Così, inviano subito emissari ai Ceutroni, ai Grudi, ai Levaci, ai
Pleumoxi, ai Geidumni, tutti popoli sottoposti alla loro autorità,
raccolgono quante più truppe possono e piombano all'improvviso sul campo
di Cicerone, che ancora non sapeva della morte di Titurio. Anche Cicerone
si trova di fronte, com'era inevitabile, all'identica situazione: alcuni
legionari, addentratisi nei boschi in cerca di legname per le
fortificazioni, vengono colti alla sprovvista dall'arrivo repentino della
cavalleria nemica. Dopo averli circondati con ingenti forze, gli Eburoni,
i Nervi e gli Atuatuci, con tutti i loro alleati e clienti, stringono
d'assedio la legione. I nostri si precipitano alle armi e salgono sul
vallo. Per quel giorno riescono a resistere, ma a stento, perché i nemici
riponevano ogni speranza nella rapidità dell'attacco ed erano convinti
che, ottenuta quella vittoria, sarebbero sempre usciti vincitori.
[40] Senza indugio Cicerone invia una lettera a Cesare, promettendo grandi
ricompense a chi fosse riuscito a recapitarla. Le vie, però, erano tutte
sorvegliate e i messi vennero intercettati. Di notte, con il legname
procurato per le fortificazioni, i Romani costruiscono, con incredibile
rapidità, almeno centoventi torri e terminano le strutture difensive non
ancora approntate. L'indomani i nemici, raccolte truppe ben più numerose,
riprendono l'assedio e riempiono la fossa. I nostri resistono nello stesso
modo del giorno prima. L'identica situazione si ripete nei giorni
successivi. Di notte i lavori non vengono sospesi, neppure per un istante;
non è concesso riposo né ai malati, né ai feriti. Tutto il necessario per
l'assedio del giorno seguente lo si prepara di notte; sono approntati
molti pali induriti al fuoco e giavellotti pesanti in gran quantità; le
torri vengono munite di tavolati, dotate di merli e parapetti di graticci.
Cicerone stesso, pur essendo di salute molto cagionevole, neanche di notte
si concedeva riposo, tanto che i soldati si accalcarono intorno a lui e lo
costrinsero, a forza di insistere, a prendersi un po' di respiro.
[41] Allora i capi e i principi dei Nervi, che avevano possibilità di contatto
con Cicerone per ragioni di amicizia, gli chiedono un colloquio ed egli lo
concede. Descrivono la situazione negli stessi termini in cui Ambiorige
l'aveva presentata a Titurio: tutta la Gallia era in armi; i Germani
avevano attraversato il Reno; il campo di Cesare e tutti gli altri erano
sotto assedio. Riferiscono anche la morte di Sabino: la presenza di
Ambiorige ne costituiva la prova. Sarebbe stato un errore aspettare
rinforzi da chi disperava della propria situazione; tuttavia, contro
Cicerone e il popolo romano non avevano alcun risentimento, solo non
accettavano più quartieri d'inverno nei loro territori e non intendevano
che tale abitudine si radicasse; concedevano ai Romani la possibilità di
lasciare il campo sani e salvi e di recarsi, senza alcun timore, dovunque
volessero. A tali parole Cicerone risponde semplicemente che non era
consuetudine del popolo romano accettare condizioni da un nemico armato;
se avessero acconsentito a deporre le armi, prometteva il suo appoggio per
l'invio di messi a Cesare: sperava, dato il senso di giustizia del
comandante, che avrebbero viste esaudite le loro richieste.
[42] Svanita tale speranza, i Nervi cingono il campo romano con un vallo alto
dieci piedi e una fossa larga quindici. Negli anni precedenti, per i
frequenti contatti con noi, avevano appreso tale tecnica e adesso erano
istruiti da alcuni prigionieri del nostro esercito; ma, privi degli
attrezzi di ferro adatti, erano costretti a fendere le zolle con le spade
e a trasportare la terra con le mani o i saguli. Ma anche da ciò,
comunque, si poté capire quanto fossero numerosi: in meno di tre ore
ultimarono una linea fortificata per un perimetro di quindici miglia. Nei
giorni successivi, sempre sulla base delle istruzioni dei prigionieri,
cominciarono a preparare e costruire torri alte come il vallo, falci e
testuggini.
[43] Il settimo giorno d'assedio si levò un vento fortissimo: i nemici
iniziarono a scagliare proiettili roventi d'argilla incandescente e frecce
infuocate contro le capanne che, secondo l'uso gallico, avevano il tetto
ricoperto di paglia. I tetti presero subito fuoco e, per la violenza delle
raffiche, le fiamme si diffusero in ogni punto del campo. I nemici, tra
alte grida, come se avessero già la vittoria in pugno, cominciarono a
spingere in avanti le torri e le testuggini, a tentar di salire sul nostro
vallo con scale. I nostri, nonostante il calore sprigionato ovunque dalle
fiamme e il nugolo di dardi che pioveva su di loro e sebbene si rendessero
conto che tutti i bagagli e ogni loro bene era perduto, diedero una tal
prova di valore e presenza di spirito, che nessuno si mosse e abbandonò il
vallo in fuga, anzi, non girarono neanche le teste: tutti si batterono con
estrema tenacia e straordinario coraggio. Per i nostri fu il giorno più
duro in assoluto, ma col risultato che, proprio in esso, i nemici subirono
il maggior numero di perdite, tra morti e feriti, perché si erano
ammassati proprio ai piedi del vallo e gli ultimi impedivano ai primi la
ritirata. Le fiamme erano un po' calate e, in una zona, una torre nemica
era stata spinta contro il vallo; i centurioni della terza coorte
ripiegarono dal settore in cui si trovavano e ordinarono a tutti i loro di
retrocedere, poi con cenni e grida cominciarono a chiamare il nemico,
sfidandolo a entrare: nessuno osò farsi avanti. Allora i nostri, da ogni
parte, scagliarono pietre e i Galli vennero dispersi; la torre fu
incendiata.
[44] In quella legione militavano due centurioni di grande valore, T. Pullone e
L. Voreno, che stavano raggiungendo i gradi più alti. I due erano in
costante antagonismo su chi doveva esser anteposto all'altro e ogni anno
gareggiavano per la promozione, con rivalità accanita. Mentre si
combatteva aspramente nei pressi delle nostre difese, Pullone disse:
"Esiti, Voreno? Che grado ti aspetti a ricompensa del tuo valore? Ecco il
giorno che deciderà le nostre controversie!" Ciò detto, scavalca le difese
e si getta contro lo schieramento nemico dove sembrava più fitto. Neppure
Voreno, allora, resta entro il vallo, ma, temendo il giudizio di tutti,
segue Pullone. A poca distanza dai nemici, questi scaglia il giavellotto
contro di loro e ne colpisce uno, che correva in testa a tutti; i compagni
lo soccorrono, caduto e morente, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti
insieme lanciano dardi contro Pullone, impedendogli di avanzare. Anzi, il
suo scudo viene passato da parte a parte e un veruto gli si pianta nel
balteo, spostandogli il fodero della spada: così, mentre cerca di
sguainarla con la destra, perde tempo e, nell'intralcio in cui si trova,
viene circondato. Subito il suo rivale Voreno si precipita e lo soccorre
in quel difficile frangente. Su di lui convergono subito tutti i nemici,
trascurando Pullone: lo credono trafitto dal veruto. Voreno combatte con
la spada, corpo a corpo, uccide un avversario e costringe gli altri a
retrocedere leggermente, ma, trasportato dalla foga, cade a capofitto in
un fosso. Viene circondato a sua volta e trova sostegno in Pullone: tutti
e due, incolumi, si riparano entro le nostre difese, dopo aver ucciso
molti nemici ed essersi procurati grande onore. Così la Fortuna, in questa
loro sfida e contesa, dispose di essi in modo che ognuno recasse
all'antagonista aiuto e salvezza e che non fosse possibile giudicare a
quale dei due, per valore, toccasse il premio per il valore.
[45] Quanto più l'assedio diventava, di giorno in giorno, duro e insostenibile
(soprattutto perché la maggior parte dei soldati era ferita e il numero
dei difensori si era ridotto a ben poca cosa), tanto più di frequente
venivano inviate lettere e messi a Cesare: alcuni di loro, catturati,
vennero uccisi tra i supplizi al cospetto dei nostri soldati.
Nell'accampamento c'era un Nervio, di nome Verticone, persona di nobili
natali: fin dall'inizio dell'assedio era passato dalla parte di Cicerone e
gli aveva giurato fedeltà assoluta. Verticone persuade un suo servo a
portare una lettera a Cesare e gli promette la libertà e grosse
ricompense. Costui porta fuori dal campo la lettera legata al suo
giavellotto: Gallo, tra Galli, si muove senza destare alcun sospetto e
raggiunge Cesare, informandolo dei pericoli che incombono su Cicerone e la
sua legione.
[46] Cesare, ricevuta la lettera verso le cinque di pomeriggio, invia
immediatamente nelle terre dei Bellovaci un messaggero al questore M.
Crasso, il cui campo invernale distava circa venticinque miglia; gli
ordina di mettersi in marcia con la legione a mezzanotte e di raggiungerlo
in fretta. Crasso lascia il campo con l'emissario. Cesare ne invia un
altro al legato C. Fabio e gli comunica di guidare la legione nei
territori degli Atrebati, da dove sapeva di dover transitare. Scrive a
Labieno di venire con la legione nelle terre dei Nervi, se la sua partenza
non era di danno per gli interessi di Roma. Ritiene di non dover aspettare
il resto dell'esercito, stanziato un po' troppo lontano; dai campi
invernali più vicini raccoglie circa quattrocento cavalieri.
[47] Le staffette, verso le nove di mattina, lo informano dell'arrivo di Crasso
ed egli, per quel giorno, avanza di circa venti miglia. Destina Crasso a
Samarobriva e gli attribuisce il comando della legione perché lasciava lì
le salmerie dell'esercito, gli ostaggi delle varie popolazioni, i
documenti ufficiali e tutto il grano trasportato per affrontare l'inverno.
Fabio con la sua legione, secondo gli ordini, senza perdere troppo tempo,
si ricongiunge con lui mentre era in marcia. Quando Labieno era ormai al
corrente della morte di Sabino e della strage delle coorti, i Treveri
giungono con tutto l'esercito: egli ebbe paura, se lasciava il campo con
una partenza simile a una fuga, di non riuscire a tener testa all'assalto
dei nemici, tanto più che li sapeva imbaldanziti per la recente vittoria.
Perciò, scrive a Cesare il pericolo a cui si troverebbe esposta la legione
guidata fuori dall'accampamento, gli illustra le vicende accadute tra gli
Eburoni e lo informa che la fanteria e la cavalleria dei Treveri, al gran
completo, si erano insediate a tre miglia di distanza dal suo campo.
[48] Cesare approvò la decisione di Labieno e, benché, così, caduta la speranza
di contare su tre legioni, dovesse accontentarsi di due, continuava a
pensare che l'unica via di salvezza comune consistesse nella rapidità di
azione. A marce forzate raggiunge la regione dei Nervi. Qui, dai
prigionieri apprende che cosa succede nel campo di Cicerone e come la
situazione sia critica. Allora, offrendogli un forte compenso, persuade
uno dei cavalieri galli a portare a Cicerone una lettera. La scrive in
greco, per evitare che i nemici, in caso di intercettazione, scoprissero i
nostri piani. Dà ordine al Gallo, se non fosse riuscito a penetrare nel
campo romano, di scagliare all'interno delle fortificazioni una tragula,
con la lettera legata alla correggia. Nella missiva scrive che era già in
marcia con le legioni e che presto sarebbe giunto; esorta Cicerone a
mostrarsi all'altezza dell'antico valore. Il Gallo, temendo il pericolo,
scaglia la tragula secondo gli ordini ricevuti. Il caso volle che si
conficcasse in una torre e che per due giorni i nostri non se ne
accorgessero. Il terzo giorno viene notata da un soldato, divelta e
consegnata a Cicerone. Egli legge attentamente la missiva e poi ne
comunica il contenuto pubblicamente, con grande gioia di tutti. Al tempo
stesso si scorgevano, in lontananza, fumi di fuochi: ogni dubbio
sull'arrivo delle legioni venne fugato.
[49] I Galli, informati del fatto dagli esploratori, tolgono l'assedio e con
tutte le truppe, circa sessantamila armati, si dirigono contro Cesare.
Cicerone, grazie all'intervento del solito Verticone - se n'è già parlato
- trova un Gallo che recapiti una lettera a Cesare, visto che era
possibile, e lo avverte di muoversi con cautela e attenzione; nella
missiva spiega a Cesare che il nemico si era allontanato e che, in forze,
stava dirigendosi contro di lui. La lettera, verso mezzanotte, perviene a
Cesare, che informa i suoi e li incoraggia in vista della battaglia.
L'indomani, all'alba, sposta l'accampamento e, percorse circa quattro
miglia, avvista la massa dei nemici tra una valle e un corso d'acqua. Era
molto rischioso combattere su un terreno sfavorevole e avendo truppe così
esigue; allora, sapendo che Cicerone era stato liberato dall'assedio, in
tutta serenità non riteneva necessario stringere i tempi. Si ferma dunque
e fortifica il campo nel posto che offriva più vantaggi; sebbene
l'accampamento fosse già, per sé, di modeste proporzioni (era per appena
settemila uomini e, per di più, privi di bagagli), lo rende ancor più
piccolo stringendo al massimo i passaggi, per indurre il nemico al più
profondo disprezzo. Nel frattempo, mediante esploratori inviati in tutte
le direzioni, esamina quale sia il percorso più agevole per attraversare
la valle.
[50] Quel giorno si verificarono solo scaramucce di cavalleria nei pressi del
corso d'acqua, mentre entrambi gli eserciti tenevano le proprie posizioni:
i Galli in quanto aspettavano l'arrivo di truppe ancor più numerose, non
ancora giunte; Cesare nella speranza di riuscire, simulando timore, ad
attirare sul suo terreno i nemici per combattere al di qua della valle,
dinnanzi al campo, o, in caso contrario, per riuscire, una volta esplorate
le strade, ad attraversare la valle e il corso d'acqua con minore
pericolo. All'alba la cavalleria avversaria si avvicina al campo e attacca
battaglia con i nostri cavalieri. Cesare, di proposito, ordina ai suoi di
ritirarsi e di rientrare all'accampamento. Al tempo stesso, comanda di
rinforzare con un vallo più alto tutti i lati del campo e di ostruire le
porte; dà ordine ai soldati di eseguire le operazioni con estrema
precipitazione e di simulare paura.
[51] I nemici, attirati da tutto ciò, varcano il fiume con le loro truppe e le
schierano in un luogo sfavorevole. Mentre i nostri abbandonano il vallo,
gli avversari si avvicinano ancor più e da tutti i lati scagliano dardi
all'interno delle fortificazioni. Poi, mandano araldi tutt'intorno al
campo e annunziano quanto segue: era consentito a chiunque lo volesse,
Gallo o Romano, di passare dalla loro parte, senza alcun pericolo, entro
le nove di mattina; scaduto il termine, nessuno ne avrebbe più avuto la
facoltà. Disprezzarono i nostri a tal punto, che alcuni dei loro
cominciarono a smantellare il vallo con le mani, altri a riempire i
fossati, perché non ritenevano possibile un'irruzione dalle porte,
ostruite per finta da una sola fila di zolle. Allora Cesare, con una
sortita da tutte le porte, lancia la cavalleria alla carica e mette in
fuga gli avversari, senza che neppure uno riuscisse a combattere e
resistere: ne uccide molti, li costringe tutti a gettare le armi.
[52] Cesare ritenne rischioso spingersi troppo in là, perché si frapponevano
selve e paludi, e si rendeva conto che non c'era modo di infliggere agli
avversari il benché minimo danno. Così, quel giorno stesso, senza nessuna
perdita, raggiunge Cicerone. Qui, con stupore, vede le torri costruite, le
testuggini e le fortificazioni dei nemici; quando la legione viene
schierata, si rende conto che neanche un soldato su dieci è illeso; da
tutti questi elementi giudica con quanto pericolo e con quale valore sia
stata affrontata la situazione: loda pubblicamente per i suoi meriti
Cicerone e i soldati, chiama individualmente i centurioni e i tribuni
militari che - lo sapeva per testimonianza di Cicerone - si erano distinti
per singolare valore. Dai prigionieri apprende altri particolari sulla
fine di Sabino e Cotta. Il giorno seguente riunisce le truppe, descrive
l'accaduto, ma rincuora e rassicura i soldati; spiega che il rovescio,
subito per colpa e imprudenza di un legato, doveva essere sopportato con
animo tanto più sereno, in quanto, per beneficio degli dèi immortali e per
il loro valore, il disastro era stato vendicato; la gioia dei nemici era
stata breve, quindi il loro dolore non doveva durare troppo a lungo.
[53] Nello stesso tempo, i Remi recano a Labieno la notizia della vittoria di
Cesare, con incredibile rapidità. Infatti, sebbene il campo di Cicerone,
dove Cesare era giunto dopo le tre di pomeriggio, distasse circa sessanta
miglia dall'accampamento di Labieno, qui, prima di mezzanotte, si levò
clamore alle porte: erano le grida dei Remi in segno di vittoria e di
congratulazione. Il fatto viene riferito anche ai Treveri; Induziomaro,
che aveva già fissato per l'indomani l'assedio al campo di Labieno, di
notte fugge e riconduce tutte le sue truppe nella regione dei Treveri.
Cesare ordina a Fabio di rientrare con la sua legione all'accampamento
invernale; dal canto suo, fissa tre quartieri d'inverno, separati,
tutt'intorno a Samarobriva e decide, date le numerose sollevazioni
verificatesi in Gallia, di rimanere personalmente con l'esercito per tutto
l'inverno. Infatti, una volta diffusasi la notizia della sconfitta e della
morte di Sabino, quasi tutti i popoli della Gallia si consultavano sulla
guerra, inviavano messi in tutte le direzioni, s'informavano sulle
decisioni degli altri e da dove sarebbe partita l'insurrezione, tenevano
concili notturni in zone deserte. Per tutto l'inverno, non ci fu per
Cesare un momento tranquillo: riceveva di continuo notizie sui progetti e
la ribellione dei Galli. Tra l'altro, L. Roscio, preposto alla tredicesima
legione, lo informò che ingenti truppe galliche delle popolazioni chiamate
aremoriche, si erano radunate con l'intenzione di assediarlo ed erano a
non più di otto miglia dal suo campo, ma, alla notizia della vittoria di
Cesare, si erano allontanate con una rapidità tale, che la loro partenza
era sembrata piuttosto una fuga.
[54] Cesare, allora, convocò i principi di ciascun popolo, e ora col timore
precisando di essere al corrente di quanto accadeva, ora con la
persuasione, indusse la maggior parte delle genti galliche al rispetto
degli impegni assunti. Tuttavia i Senoni, tra i più forti e autorevoli in
Gallia, a seguito di decisione pubblica, tentarono di eliminare Cavarino,
che Cesare aveva designato loro sovrano (e già erano stati re suo fratello
Moritasgo, all'epoca dell'arrivo di Cesare in Gallia, e i suoi avi).
Cavarino ne presagì le intenzioni e fuggì; i suoi avversari gli diedero la
caccia sino al confine e lo bandirono dal trono e dal paese. In seguito,
inviarono a Cesare un'ambasceria per discolparsi: egli comandò che tutti i
senatori si presentassero da lui, ma il suo ordine venne disatteso. A
quegli uomini barbari bastò che ci fossero dei fautori della guerra: in
tutti si verificò un tale mutamento di propositi, che quasi nessun popolo
rimase al di sopra dei nostri sospetti, se si eccettuano gli Edui e i
Remi, che Cesare tenne sempre in particolare onore - i primi per l'antica
e costante lealtà nei confronti del popolo romano, i secondi per i recenti
servizi durante la guerra in Gallia. Ma non so se la cosa sia poi tanto
strana, tenendo soprattutto presente che, tra le molte altre cause, popoli
considerati superiori a tutti, per valore militare, adesso erano
profondamente afflitti per aver perso prestigio al punto da dover
sottostare al dominio di Roma.
[55] I Treveri e Induziomaro, però, per tutto l'inverno non smisero un attimo
di inviare ambascerie oltre il Reno e di sobillare le altre genti, di
promettere denaro e di sostenere che, distrutto ormai il grosso del nostro
esercito, ne restava solo una minima parte. Ma non gli riuscì di
persuadere nessun popolo dei Germani a varcare il Reno; affermavano di
averne fatta già due volte esperienza, con la guerra di Ariovisto e il
passaggio dei Tenteri: non avrebbero tentato ulteriormente la sorte.
Caduta tale speranza, Induziomaro cominciò lo stesso a radunare truppe e a
esercitarle, a fornirsi di cavalli dalle genti vicine e ad attirare a sé,
con grandi remunerazioni, gli esuli e le persone condannate di tutta la
Gallia. In tal modo si era già procurato in Gallia tanta autorità, che da
ogni regione accorrevano ambascerie e gli chiedevano i suoi favori e la
sua amicizia, per l'interesse pubblico e privato.
[56] Induziomaro, quando si rese conto della spontaneità di tali ambascerie e
che, da un lato, i Senoni e i Carnuti erano spinti dalla consapevolezza
della propria colpa, dall'altro i Nervi e gli Atuatuci preparavano guerra
ai Romani, e, inoltre, che non gli sarebbero mancate bande di volontari,
se si fosse mosso dai suoi territori, convoca un'assemblea armata. È il
modo con cui di solito i Galli iniziano una guerra: per una legge comune,
tutti i giovani sono costretti a venirvi in armi; chi giunge ultimo, al
cospetto di tutti viene sottoposto a torture d'ogni sorta e ucciso. In
tale assemblea Induziomaro dichiara Cingetorige, capo della fazione
avversa e suo genero - abbiamo già ricordato che si era messo sotto la
protezione di Cesare e gli era rimasto fedele - nemico pubblico e ne
confisca le sostanze. Dopo tali risoluzioni, nel concilio Induziomaro
annuncia solennemente di aver accolto le sollecitazioni dei Senoni, dei
Carnuti e di molte altre genti della Gallia; intende attraversare i
territori dei Remi e devastarne i campi, ma, prima, vuole porre l'assedio
al campo di Labieno. Impartisce gli ordini da eseguire.
[57] Labieno, al riparo in un accampamento ben munito per conformazione
naturale e numero di soldati, non nutriva timori per sé o per la legione.
Tuttavia, meditava di non lasciarsi sfuggire nessuna occasione per una
bella impresa. Così, non appena informato da Cingetorige e dai suoi
parenti del discorso di Induziomaro al concilio, Labieno invia messi alle
genti limitrofe e fa venire a sé da ogni parte cavalieri: fissa la data in
cui avrebbero dovuto presentarsi. Frattanto, quasi ogni giorno
Induziomaro, con la cavalleria al completo, incrociava nei pressi
dell'accampamento, vuoi per prender visione di com'era disposto il campo,
vuoi per intavolare discorsi o suscitar timori; i suoi cavalieri,
generalmente, scagliavano frecce all'interno del vallo. Labieno teneva i
suoi entro le fortificazioni e cercava, con ogni mezzo, di dar
l'impressione di aver paura.
[58] Mentre Induziomaro, di giorno in giorno, si avvicinava al campo con
maggior sicurezza, Labieno una notte fece entrare i cavalieri richiesti a
tutte le genti limitrofe; grazie alle sentinelle, riuscì a trattenere
tutti i suoi all'interno del campo così bene, che in nessun modo la
notizia poté trapelare o giungere ai Treveri. Nel frattempo Induziomaro,
come ogni giorno, si avvicina all'accampamento e qui trascorre la maggior
parte del giorno: i suoi cavalieri scagliano frecce e provocano i nostri a
battaglia con ingiurie d'ogni sorta. I nostri non rispondono e gli
avversari, quando lo ritengono opportuno, al calar della sera, si
allontanano a piccoli gruppi, disunendosi. All'improvviso Labieno, da due
porte, lancia alla carica tutta la cavalleria: dà ordine e disposizione
che, dopo aver spaventato e messo in fuga i nemici (prevedeva che sarebbe
successo, come in effetti capitò), tutti puntino solo su Induziomaro e non
colpiscano nessun altro prima di averlo visto morto: non voleva che,
mentre si attardavano a inseguire gli altri, il Gallo trovasse una via di
scampo. Promette grandi ricompense a chi l'avesse ucciso; invia le coorti
in appoggio ai cavalieri. La Fortuna asseconda il piano dell'uomo: tutti
si lanciano su Induziomaro, lo catturano proprio sul guado del fiume e lo
uccidono; la sua testa viene portata all'accampamento; i cavalieri, nel
rientrare, inseguono e massacrano quanti più nemici possono. Avute queste
notizie, tutte le truppe degli Eburoni e dei Nervi, che si erano lì
concentrate, si disperdono: dopo questa battaglia Cesare riuscì a tenere
un po' più tranquilla la Gallia.