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FrasiTraduzione Libro VI (6 sei) De Bello Gallico



Libro: I II III IV V VI VII VIII
Liber: I II III IV V VI VII VIII

Sommario


[1] Per molte ragioni Cesare si attendeva una più grave sollevazione della Gallia, perciò decide di operare un reclutamento mediante i suoi legati M. Silano, C. Antistio Regino e T. Sestio. Al tempo stesso, al proconsole Cn. Pompeo, rimasto nelle vicinanze di Roma con un comando militare per il bene dello stato, chiede di radunare e inviargli i soldati che aveva già arruolato e fatto giurare nella Gallia cisalpina quand'era console. Al fine di mantenere il buon concetto che i Galli avevano di noi, riteneva estremamente importante, anche per il futuro, che vedessero quali erano le risorse dell'Italia: i Romani, se anche subivano un rovescio in guerra, erano in grado non solo di rimediare in poco tempo alle perdite, ma addirittura di aumentare il numero degli effettivi. Pompeo, sia nell'interesse pubblico, sia per ragioni di amicizia, acconsentì. Completato con celerità l'arruolamento tramite i legati, prima della fine dell'inverno vennero formate tre legioni e condotte in Gallia. Cesare raddoppiò, così, il numero delle coorti rispetto a quelle perse con Q. Titurio e, grazie alla rapidità e all'entità del reclutamento, dimostrò di che cosa fossero capaci l'organizzazione e i mezzi di Roma.

Traduzione italiano-latino



[2] Dopo l'uccisione di Induziomaro, come abbiamo descritto, i Treveri affidano il comando ai suoi parenti, che non desistono dal sobillare i Germani limitrofi, promettendo denaro. Non avendo ottenuto risultato con i Germani vicini, tentano con i più lontani. Trovate alcune genti disposte all'azione, a esse si vincolano con giuramento solenne; quanto al denaro, garantiscono con ostaggi. Accolgono nella loro lega e patto Ambiorige. Informato di ciò, Cesare si accorse che, ovunque, erano in corso preparativi di guerra: i Nervi, gli Atuatuci, i Menapi erano in armi, uniti a tutti i Germani stanziati al di qua del Reno; i Senoni non rispondevano alle convocazioni e si accordavano con i Carnuti e i popoli limitrofi; i Treveri facevano pressione sui Germani con frequenti ambascerie. Quindi, ritenne di dover pensare alla guerra più presto del solito.

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[3] Perciò, prima ancora della fine dell'inverno, radunò le quattro legioni più vicine e, inatteso, puntò sui territori dei Nervi: non lasciò ai nemici il tempo di accorrere o fuggire e, catturati molti capi di bestiame e uomini, che concesse come preda ai soldati, devastò i campi e costrinse i Nervi alla resa e alla consegna di ostaggi. Terminate con rapidità le operazioni, ricondusse le legioni negli accampamenti invernali. Indetto, secondo il solito, un concilio della Gallia per l'inizio della primavera, si presentarono tutti, tranne i Senoni, i Carnuti e i Treveri. Cesare lo considera segno dell'inizio delle ostilità e della ribellione e, per dimostrare che metteva in secondo piano ogni altro problema, trasferisce il concilio a Lutezia, città dei Parisi. Costoro confinavano con i Senoni e a essi si erano uniti all'epoca dei nostri padri, ma non prendevano parte, si riteneva, al piano di sollevazione. Comunicato dalla tribuna il cambiamento di sede, il giorno stesso si dirige, con le legioni, verso le terre dei Senoni, dove giunge a marce forzate.

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[4] Saputo del suo arrivo, Accone, responsabile del piano, ordina alla popolazione di rifugiarsi nelle città. Mentre il tentativo era in corso, prima che le operazioni fossero ultimate, viene annunziato che i Romani sono giunti. I Senoni sono costretti a rinunciare ai loro propositi e inviano un'ambasceria a Cesare per scongiurarne il perdono: inoltrano la supplica attraverso gli Edui, che da antico tempo li tutelavano. Dal momento che la richiesta veniva dagli Edui, Cesare concede volentieri il perdono e accetta le giustificazioni, ritenendo che quell'estate fosse la stagione di una guerra imminente, e non dei processi. Esige cento ostaggi e li affida alla custodia degli Edui. Anche i Carnuti gli inviano messi e ostaggi, avvalendosi dell'intercessione dei Remi, di cui erano clienti: ottengono la stessa risposta. Cesare chiude il concilio e impone alle genti galliche di fornirgli cavalieri.

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[5] Pacificata questa zona della Gallia, Cesare impegna mente e animo, totalmente, nella guerra contro i Treveri e Ambiorige. Ordina a Cavarino di assumere il comando della cavalleria dei Senoni e di seguirlo, per evitare sedizioni dovute al carattere iracondo del Gallo oppure all'odio che costui si era meritato da parte della sua gente. Prese tali decisioni, Cesare, sapendo per certo che Ambiorige non si sarebbe misurato in uno scontro aperto, cercava di scoprire quali altre soluzioni rimanessero all'avversario. Con gli Eburoni confinavano i Menapi, protetti da sterminate paludi e selve, l'unico popolo della Gallia a non aver mai inviato messi a Cesare per trattare la pace. Cesare conosceva i vincoli di ospitalità tra Ambiorige e i Menapi ed era pure al corrente che, tramite i Treveri, il Gallo aveva stretto rapporti d'alleanza con i Germani. Stimava necessario sottrargli ogni appoggio, piuttosto che provocarlo a battaglia: non voleva che Ambiorige, sentendosi perduto, fosse costretto a rifugiarsi nelle terre dei Menapi o a unirsi ai Germani d'oltre Reno. Con questa intenzione invia a Labieno, nel paese dei Treveri, tutte le salmerie dell'esercito e dà ordine a due legioni di raggiungerlo. Dal canto suo, con cinque legioni senza bagagli marcia sui Menapi. Costoro, senza neppure radunare truppe, confidando nelle sole difese naturali del luogo, si rifugiano nelle selve e nelle paludi, ammassandovi tutti i loro beni.

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[6] Cesare divide le truppe con il legato C. Fabio e il questore M. Crasso, costruisce con rapidità ponti sulle paludi e avanza su tre fronti: incendia gli edifici isolati e i villaggi, cattura un gran numero di capi di bestiame e di uomini. I Menapi, nella morsa della necessità, gli inviano ambasciatori per chiedere pace. Cesare riceve gli ostaggi e dichiara che, se avessero accolto nei loro territori Ambiorige o suoi emissari, li avrebbe considerati nemici. Sistemata la questione, lascia tra i Menapi, a sorvegliare la regione, l'atrebate Commio con la cavalleria e punta contro i Treveri.

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[7] Mentre Cesare conduceva tali operazioni, i Treveri, raccolte ingenti forze di fanteria e cavalleria, preparavano l'attacco a Labieno e alla legione che aveva svernato nei loro territori. Non distavano, ormai, più di due giorni di cammino da Labieno, quando vengono a sapere dell'arrivo di due legioni, inviate da Cesare. Pongono il campo a quindici miglia dai nostri e decidono di aspettare i rinforzi dei Germani. Labieno, conosciute le intenzioni dei nemici, spera che la loro imprudenza gli offra l'occasione per uno scontro: lasciate cinque coorti a presidio delle salmerie, con venticinque coorti e una forte cavalleria si dirige contro il nemico. Alla distanza di un miglio dai Treveri fortifica il campo. Tra Labieno e il nemico scorreva un fiume difficile da guadare, che aveva le rive scoscese. Né lui aveva intenzione di attraversarlo, né pensava che lo avrebbero fatto i nemici, tra i quali ogni giorno cresceva la speranza dei rinforzi. Al consiglio di guerra Labieno rende noto apertamente che, essendo i Germani in arrivo, a quanto si diceva, non intendeva esporre a rischi se stesso, né l'esercito; perciò, il giorno seguente, all'alba, avrebbe tolto il campo. Ben presto la notizia viene riportata ai nemici: dei molti cavalieri galli, alcuni erano spinti - com'è naturale - a favorire la causa del loro paese. Labieno, convocati di notte i tribuni militari e i centurioni più alti in grado, espone il suo piano e, per dare con più facilità al nemico l'impressione di panico tra i nostri, ordina di levare il campo con uno strepito e tumulto insoliti per l'esercito del popolo romano. Così, rende la partenza simile a una fuga. Vicini com'erano i due accampamenti, prima dell'alba i nemici vengono informati anche di ciò dai loro esploratori.

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[8] La retroguardia era appena uscita dalle fortificazioni, che i Galli si spronano a vicenda a non lasciarsi sfuggire dalle mani la preda sperata: sarebbe stato troppo lungo, con i Romani atterriti, aspettare i rinforzi dei Germani; per la loro dignità era inammissibile, numerosi com'erano, non osare l'attacco a un reparto nemico così esiguo e, oltretutto, in fuga e carico di bagagli. Così, non esitano a varcare il fiume e a venire a battaglia in posizione di svantaggio. Labieno, avendo previsto ogni mossa, allo scopo di attirare tutti i nemici al di qua del fiume continuava nella sua finzione e proseguiva la marcia, lentamente. Poi, inviate le salmerie un po' più avanti e avendole disposte su di un rialzo, disse: "Soldati, avete l'occasione che vi auguravate: tenete in pugno il nemico, in un luogo malagevole e per loro svantaggioso; date prova, adesso, sotto la nostra guida, dello stesso valore che più di una volta avete dimostrato al comandante in capo, fate conto che lui sia qui e che assista allo scontro di persona". Contemporaneamente ordina di volgere le insegne contro il nemico e di formare la linea di battaglia, invia pochi squadroni a presidio delle salmerie e dispone il resto della cavalleria sulle ali. I nostri rapidamente, tra alte grida, scagliano i giavellotti sui nemici. Costoro, quando contro ogni aspettativa videro i Romani volgere le insegne e avanzare, mentre li credevano già in fuga, non riuscirono neanche a sostenerne l'urto: al primo assalto batterono in ritirata e cercarono rifugio nelle selve più vicine. Labieno li inseguì con la cavalleria, ne uccise molti e ne fece prigionieri parecchi: pochi giorni dopo i Treveri si arresero. Infatti, i Germani, che venivano in loro aiuto, avuta notizia della fuga dei Treveri, rientrarono in patria. Al loro seguito lasciarono il paese i parenti di Induziomaro, che avevano istigato alla defezione. A Cingetorige, rimasto fedele fin dall'inizio, come abbiamo ricordato, fu conferito il principato e il comando.

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[9] Cesare, appena giunto dalle terre dei Menapi nella regione dei Treveri, decise di varcare il Reno per due motivi: primo, i Germani avevano mandato aiuti ai Treveri contro di lui; secondo, non voleva che Ambiorige trovasse rifugio presso di loro. Presa tale decisione, comincia a costruire un ponte poco più a nord del luogo in cui, in passato, l'esercito aveva varcato il fiume. Essendo la maniera di fabbricarlo già nota e sperimentata, l'opera viene realizzata in pochi giorni grazie al grande impegno dei soldati. A un capo del ponte, nelle terre dei Treveri, per impedirne un'improvvisa sollevazione, lascia un saldo presidio e guida, sull'altra riva, il resto delle truppe e la cavalleria. Gli Ubi, che in precedenza avevano consegnato ostaggi e si erano sottomessi, inviano a Cesare un'ambasceria per discolparsi: non avevano inviato rinforzi ai Treveri, né violato i patti. Gli chiedono, lo scongiurano di risparmiarli, di non accomunarli ai Germani nel suo odio, perché non volevano, innocenti, pagare per chi innocente non era; se chiedeva altri ostaggi, erano pronti a consegnarli. Cesare, fatta luce sull'accaduto, scopre che i rinforzi erano stati inviati dagli Svevi. Accetta le spiegazioni degli Ubi, si informa in modo dettagliato sulle vie d'accesso alle terre degli Svevi.

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[10] Intanto, pochi giorni dopo, gli Ubi lo avvertono che gli Svevi stavano concentrando tutte le truppe in un solo luogo e che imponevano ai popoli sottomessi l'invio di rinforzi di fanteria e cavalleria. Saputo ciò, Cesare provvede alle scorte di grano, sceglie un luogo adatto all'accampamento e ordina agli Ubi di portar via i capi di bestiame e di ammassare ogni bene dalle campagne nelle città. Sperava che i nemici, barbari e inesperti com'erano, si lasciassero indurre ad accettare lo scontro anche in posizione di svantaggio, costretti a ciò dalla mancanza di viveri. Incarica gli Ubi di inviare molti esploratori nelle zone degli Svevi per spiarne le mosse. Gli Ubi eseguono gli ordini e, pochi giorni dopo, riferiscono: tutti gli Svevi, avute notizie più sicure sull'esercito dei Romani, si erano ritirati lontano, nei loro territori più remoti, con tutte le truppe e i contingenti alleati da essi raccolti; lì si trovava una foresta sterminata, di nome Bacenis, che si estendeva profonda verso l'interno e formava una sorta di barriera naturale tra i Cherusci e gli Svevi, impedendo agli uni e agli altri violenze e incursioni: sul limitare della foresta gli Svevi avevano deciso di attendere l'arrivo dei Romani.

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[11] Giunti a questo punto, non ci sembra fuori luogo esporre i costumi della Gallia e della Germania e le differenze tra le due nazioni. In Gallia non solo tutti i popoli, le tribù e i gruppi, ma addirittura quasi tutte le famiglie sono divise in fazioni. A capo di esse sta chi, secondo l'opinione dei Galli, è considerato più autorevole, ed egli è arbitro e giudice in tutti gli affari e le deliberazioni. A quanto pare, l'istituzione risaliva a tempi antichi, al fine di garantire alla gente del popolo sostegno contro i più potenti. Infatti, il capo di ogni fazione non permette che la sua gente subisca violenze o raggiri; in caso contrario, tra i suoi perde ogni autorità. Lo stesso sistema regola ogni aspetto della vita in Gallia, tant'è vero che tutti i popoli sono divisi in due fazioni.

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[12] Al momento dell'arrivo di Cesare in Gallia, una fazione faceva capo agli Edui, l'altra ai Sequani. Quest'ultimi, di per sé meno influenti - fin dai tempi antichi la massima autorità era nelle mani degli Edui, che avevano molti clienti - si erano uniti ai Germani e ad Ariovisto, attirandoli con grandi elargizioni e promesse. Riportati diversi successi in battaglia ed eliminati tutti i nobili edui, i Sequani avevano superato in potenza gli Edui stessi, al punto da sottrarre loro la maggior parte dei popoli soggetti, da costringerli a dare in ostaggio i figli dei capi e a giurare pubblicamente di non intraprendere nulla contro di loro; inoltre, si erano impadroniti, con le armi, di una parte del territorio eduo contiguo al loro e avevano ottenuto la supremazia su tutta la Gallia. Diviziaco, spinto dalla necessità, si era recato a Roma, dal senato, per chiedere aiuto, ma era ritornato con un nulla di fatto. L'arrivo di Cesare aveva prodotto un vero e proprio capovolgimento: gli Edui si erano visti rendere gli ostaggi, avevano recuperato i vecchi clienti, ne avevano acquisito di nuovi, grazie a Cesare, perché i popoli che si ponevano sotto la loro tutela si accorgevano di ricevere un trattamento migliore e di sottostare a un dominio più equo. Quanto al resto, il prestigio e la dignità degli Edui erano cresciuti, i Sequani avevano perso l'egemonia. Al loro posto erano subentrati i Remi. Il favore di Cesare per gli Edui e i Remi era identico, lo si capiva, perciò i popoli che, per antiche inimicizie, non potevano assolutamente legarsi ai primi, si facevano clienti dei secondi, che li proteggevano con ogni cura, mantenendo, in tal modo, un prestigio nuovo e assunto di colpo. Quindi, al momento, la situazione era la seguente: gli Edui erano considerati i primi in assoluto, i Remi occupavano, in dignità, il secondo posto.

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[13] In tutta la Gallia ci sono due classi di persone tenute in un certo conto e riguardo. La gente del popolo, infatti, è considerata quasi alla stregua dei servi, non prende iniziative e non viene ammessa alle assemblee. I più, oberati dai debiti, dai tributi gravosi o dai soprusi dei potenti, si mettono al servizio dei nobili, che su di essi godono degli stessi diritti che hanno i padroni sugli schiavi. Delle due classi, dunque, la prima comprende i druidi, l'altra i cavalieri. I druidi si occupano delle cerimonie religiose, provvedono ai sacrifici pubblici e privati, regolano le pratiche del culto. Moltissimi giovani accorrono a istruirsi dai druidi, che tra i Galli godono di grande onore. Infatti, risolvono quasi tutte le controversie pubbliche e private e, se è stato commesso un reato, se c'è stato un omicidio, oppure se sorgono problemi d'eredità o di confine, sono sempre loro a giudicare, fissando risarcimenti e pene. Se qualcuno - si tratti di un privato cittadino o di un popolo - non si attiene alle loro decisioni, gli interdicono i sacrifici. È la pena più grave tra i Galli. Chi ne è stato colpito, viene considerato un empio, un criminale: tutti si scostano alla sua vista, lo evitano e non gli rivolgono la parola, per non contrarre qualche sciagura dal suo contatto; non è ammesso a chiedere giustizia, né può essere partecipe di qualche carica. Tutti i druidi hanno un unico capo, che gode della massima autorità. Alla sua morte, ne prende il posto chi preceda gli altri druidi in prestigio, oppure, se sono in parecchi ad avere uguali meriti, la scelta è lasciata ai voti dei druidi, ma talvolta si contendono la carica addirittura con le armi. In un determinato periodo dell'anno si radunano in un luogo consacrato, nella regione dei Carnuti, ritenuta al centro di tutta la Gallia. Chi ha delle controversie, da ogni regione qui si reca e si attiene alla decisione e al verdetto dei druidi. Si crede che la loro dottrina sia nata in Britannia e che, da lì, sia passata in Gallia: ancor oggi, chi intende approfondirla, in genere si reca sull'isola per istruirsi.

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[14] I druidi, di solito, non prendono parte alle guerre e non pagano tributi come gli altri, sono esentati dal servizio militare e dispensati da ogni altro onere. Con la prospettiva di così grandi privilegi, molti giovani si accostano spontaneamente a questa dottrina, molti altri vengono inviati dai loro genitori e parenti ad apprenderla. Presso i druidi, a quanto si dice, imparano a memoria un gran numero di versi. E alcuni proseguono gli studi per oltre vent'anni. Non ritengono lecito affidare i loro insegnamenti alla scrittura, mentre per quasi tutto il resto, per gli affari pubblici e privati, usano l'alfabeto greco. A mio parere, hanno stabilito così per due motivi: non vogliono che la loro dottrina venga divulgata tra il popolo, e neppure che i discepoli, fidando nella scrittura, esercitino la memoria con più scarso impegno, come accade quasi a tutti, che, valendosi dello scritto, si applicano meno nello studio e trascurano la memoria. Il loro principale insegnamento riguarda l'immortalità dell'anima, che dopo la morte - sostengono - passa da un corpo ad un altro. Lo ritengono un grandissimo incentivo al coraggio, poiché viene eliminata la paura di morire. Inoltre, sulle stelle e il loro moto, sulla dimensione del cielo e della terra, sulla natura, sulla potenza e la potestà degli dèi immortali discutono molto e tramandano questo patrimonio ai giovani.

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[15] L'altra è la classe dei cavalieri. Quando ce n'è bisogno scoppia qualche guerra (prima dell'arrivo di Cesare quasi ogni anno se ne verificavano, sia che fossero i Galli ad attaccare, sia che dovessero difendersi), i cavalieri partecipano al completo alle operazioni militari. Quanto più uno è influente per nascita e mezzi, tanto più si circonda di ambacti e di clienti: è l'unica forma di prestigio e di potere che conoscano.

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[16] Il popolo dei Galli, nel suo complesso, è oltremodo religioso. Per tale motivo, chi è afflitto da malattie di una certa gravità e chi rischia la vita in battaglia o è esposto ai pericoli, immola o fa voto di immolare vittime umane e si vale dei druidi come ministri dei sacrifici. Ritengono, infatti, che gli dèi immortali non possano venir placati, se non si offre la vita di un uomo in cambio della vita di un altro uomo. Celebrano anche istituzionalmente sacrifici di tal genere. Alcuni popoli hanno figure umane di enormi dimensioni, di vimini intrecciati, che vengono riempite di uomini ancor vivi: si appicca il fuoco e le persone prigioniere lì dentro, avvolte dalle fiamme, muoiono. Credono che agli dèi immortali sia più gradito, tra tutti, il supplizio di chi è stato sorpreso a commettere furti, ladrocini o altri delitti, ma quando mancano vittime di questo tipo, si risolvono anche a suppliziare chi è innocente.

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[17] Il dio più venerato è Mercurio: ne hanno moltissimi simulacri. Lo ritengono inventore di tutte le arti, guida delle vie e dei viaggi, credono che, più di ogni altro, abbia il potere di favorire i guadagni e i commerci. Dopo di lui adorano Apollo, Marte, Giove e Minerva. Su tutti questi dèi la pensano, all'incirca, come le altre genti: Apollo guarisce le malattie, Minerva insegna i principi dei lavori manuali, Giove è il re degli dèi, Marte governa le guerre. A quest'ultimo, in genere, quando decidono di combattere, offrono in voto il bottino di guerra: in caso di vittoria, immolano gli animali catturati e ammassano il resto in un unico luogo. Nei territori di molti popoli è possibile vedere, in zone consacrate, tumuli costruiti con tali spoglie. E ben di rado accade che uno, sfidando il voto religioso, osi nascondere a casa sua il bottino o sottrarre qualcosa dai tumuli: per una colpa del genere è prevista una morte terribile tra le torture.

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[18] I Galli affermano di discendere tutti dal padre Dite e dicono che siano i druidi a tramandarlo. Per tale motivo calcolano il tempo non sulla base dei giorni, ma delle notti. E anche i compleanni e i primi giorni del mese e dell'anno li osservano a partire dalla notte fino al giorno successivo. Per quanto riguarda gli altri usi quotidiani differiscono dai rimanenti popoli quasi solo per il seguente aspetto: non permettono che i figli li avvicinino davanti a tutti, se non quando, cresciuti, sono ormai in grado di prestare servizio militare, e considerano una vergogna che un figlio, in giovane età, si presenti davanti al padre in pubblico.

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[19] Gli uomini, fatta la stima della dote portata dalle mogli, mettono in comune, dal loro patrimonio, l'equivalente dei beni ricevuti. Si fa un computo unico della somma e se ne conservano gli interessi: chi dei due sopravvive all'altro, entra in possesso dei beni di entrambi con i frutti degli anni precedenti. Gli uomini hanno diritto di vita e di morte sulle mogli come sui figli. Quando muore un capofamiglia di un certo riguardo, i parenti si riuniscono e, se nasce qualche sospetto sulla sua morte, interrogano le mogli come si fa con i servi: se risultano colpevoli, le uccidono dopo averle torturate col fuoco e supplizi d'ogni sorta. I funerali sono, in rapporto alla civiltà dei Galli, magnifici e sontuosi; depongono sulla pira ogni cosa cara in vita al defunto, anche gli animali. E fino a poco tempo fa, insieme al morto, venivano cremati, con le dovute esequie, i servi e i clienti che si sapevano da lui prediletti.

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[20] Presso i popoli che, secondo l'opinione comune, sono meglio organizzati, la legge prescrive che se uno sente, dalle genti limitrofe, voci o notizie riguardanti lo stato, deve informare il magistrato senza farne cenno ad altri, perché spesso, si sa, gli uomini avventati e inesperti si lasciano atterrire dalle false notizie, sono spinti a commettere delitti e prendono decisioni sui problemi più importanti. I magistrati tengono segreto ciò che sembra loro opportuno e divulgano le altre notizie considerate utili. Non è permesso trattare questioni di stato se non nelle assemblee.

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[21] I Germani hanno consuetudini molto diverse. Infatti, non hanno druidi che presiedano alle cerimonie religiose, né si occupano di sacrifici. Considerano dèi solo quelli che vedono e dal cui aiuto traggono giovamento palese: il Sole, Vulcano, la Luna. Degli altri dèi non hanno neanche sentito parlare. Passano tutta la vita tra cacce e addestramento alla guerra: fin dall'infanzia si abituano alla fatica e alla vita dura. Quanto più a lungo un giovane rimane casto, tanto più riceve le lodi della sua gente: ritengono che ciò aumenti la statura, accresca la robustezza fisica e il vigore. E stimano tra le cose più vergognose aver rapporti intimi con una donna prima dei vent'anni; ma il sesso non viene nascosto, in quanto maschi e femmine si lavano insieme nei fiumi, indossano pelli o giubbotti di pelliccia che lasciano scoperta gran parte del corpo.

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[22] Non praticano l'agricoltura, il loro vitto consiste, per la maggior parte, di latte, formaggio e carne. Nessuno ha in proprio un terreno fisso o un possesso personale. Anzi, alle genti e ai nuclei familiari in cui i parenti convivono, i magistrati e i capi attribuiscono, di anno in anno, la quantità di terra e la zona ritenute giuste, ma l'anno successivo li costringono a spostarsi altrove. Forniscono, in merito, molteplici spiegazioni. Non vogliono che la gente, vinta da una costante abitudine, sostituisca la guerra con l'agricoltura, che desideri procurarsi appezzamenti più estesi e che i più potenti scaccino dai loro campi i meno forti. Non vogliono che vengano costruite case confortevoli per difendersi dal freddo e dal caldo, che nasca la brama di denaro, fonte di fazioni e dissensi, cercano di tenere a bada il popolo con la serenità d'animo, quando ciascuno si renda conto di possedere quanto i più potenti.

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[23] Il vanto maggiore per le loro genti è, devastate le zone di confine, di avere intorno a sé dei deserti, nel raggio più ampio. Ritengono segno distintivo del valore se i vicini, scacciati dai loro territori, si ritirano e nessuno osa stabilirsi nei pressi. Al contempo, si sentono più al sicuro, eliminato il timore di un'incursione improvvisa. Quando un popolo entra in guerra, per difendersi o attaccare, vengono scelti dei magistrati per guidarli, ed essi hanno potere di vita e di morte. In tempo di pace non ci sono magistrati comuni, ma i capi delle varie regioni e tribù, al loro interno, amministrano la giustizia e appianano le controversie. Il ladrocinio non comporta disonore, se commesso fuori dei territori di ciascun popolo, anzi, lo consigliano per esercitare i giovani e diminuire l'inerzia. E quando, durante l'assemblea, uno dei capi si dichiara pronto a guidare una spedizione e chiede ai volontari di farsi avanti, chi è favorevole all'impresa e all'uomo si alza e promette il proprio sostegno, tra le lodi generali; chi, invece, non si unisce alla spedizione, viene considerato nel novero dei disertori e dei traditori, e in futuro gli viene negata fiducia in ogni campo. Considerano sacrilegio recare offesa a un ospite: chiunque, per qualsiasi motivo, giunga da loro, viene protetto da ogni torto e considerato sacro, gli sono aperte le porte di tutte le case e con lui viene diviso il cibo.

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[24] Ci fu, in passato, un tempo in cui i Galli erano più forti dei Germani, li attaccavano e, avendo una popolazione numerosa e pochi campi, inviavano colonie oltre il Reno. Perciò, le zone della Germania più fertili attorno alla selva Ercinia - nota, a quanto vedo, a Eratostene e ad altri Greci, che però la chiamano Orcinia - le occuparono i Volci Tectosagi, insediandosi lì. Essi abitano ancor oggi la regione e godono di straordinaria fama quanto a giustizia e valor militare. Ma mentre i Germani mantengono sempre le stesse condizioni di povertà, stenti e sopportazione, senza aver in nulla mutato il nutrimento e il tenore di vita, i Galli, invece, dalla vicinanza con le nostre province e dal commercio marittimo hanno tratto molte ricchezze e vantaggi. Così, si sono gradualmente abituati alla sconfitta e, vinti in molte battaglie, non osano più neppure paragonarsi ai Germani per valore.

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[25] La selva Ercinia, sopra menzionata, si estende per una larghezza equivalente a nove giorni di marcia per chi viaggi libero da impedimenti: non è possibile, infatti, determinare in altro modo le sue dimensioni, perché i Germani non conoscono le misure itinerarie. Ha inizio nei territori degli Elvezi, dei Nemeti e dei Rauraci e, in parallelo con il corso del Danubio, raggiunge il paese dei Daci e degli Anarti; da qui, piega a sinistra, in regioni lontane dal fiume e, nella sua vastità, tocca le terre di molti popoli. Non c'è nessuno, in questa zona della Germania, che possa affermare di aver raggiunto l'inizio della selva, benché si sia spinto in avanti per sessanta giorni di cammino, o che abbia sentito dire dove ha principio. Vi nascono, a quanto consta, molte specie di animali mai visti altrove: di essi descriveremo i più strani e singolari e più degni, a nostro parere, di menzione.

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[26] C'è un bue, dalla forma di cervo, che in mezzo alla fronte, tra le orecchie, ha un corno unico, più alto e più dritto di quelli a noi noti: sulla sommità, il corno si divide in ampie diramazioni. Uguale è l'aspetto della femmina e del maschio, con corna di identica forma e grandezza.

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[27] Ci sono, altresì, le cosiddette alci. Per forma e varietà delle pelli assomigliano alle capre, ma sono un po' più grosse, hanno le corna senza punta e le zampe senza giunture, per cui né si sdraiano per riposarsi, né, se per qualche motivo cadono a terra, sono in grado di rialzarsi o risollevarsi. Come giacigli usano gli alberi: vi si appoggiano e così, leggermente reclinate, si addormentano. Quando i cacciatori, dalle orme, scoprono il rifugio delle alci, scalzano o tagliano alla base tutti gli alberi del luogo, stando attenti che rimanga nell'insieme l'aspetto di alberi ritti. Quando le alci, come al solito, vi si appoggiano, con il loro peso provocano il crollo degli alberi, già malfermi, e cadono anch'esse per terra.

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[28] La terza è la specie dei cosiddetti uri. Sono leggermente più piccoli degli elefanti, assomigliano ai tori per aspetto, colore e forma. Sono molto forti, estremamente veloci, non risparmiano né uomini, né animali che abbiano scorto. I Germani si danno molto da fare per catturarli per mezzo di fosse, e poi li uccidono: i giovani si temprano e si esercitano in queste fatiche e genere di cacce. Chi ha ucciso diversi uri, ne espone le corna pubblicamente, a testimonianza della sua impresa, ricevendo grandi elogi. Non si riesce ad abituare gli uri alla presenza degli uomini, né ad addomesticarli, neppure se catturati da piccoli. Le corna, per ampiezza, forma e aspetto, sono molto diverse da quelle dei nostri buoi. Sono un pezzo molto ricercato, le guarniscono d'argento negli orli e le usano come coppe nei banchetti più sontuosi.

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[29] Cesare, quando dagli esploratori degli Ubi apprende che gli Svevi si erano rifugiati nelle selve, decide di non avanzare ulteriormente, temendo che gli venisse a mancare il grano, visto che tutti i Germani, come abbiamo ricordato prima, non praticano affatto l'agricoltura. Ma per tener desto nei barbari il timore di un suo possibile ritorno e per rallentare la marcia dei loro rinforzi, ritira l'esercito e, per duecento piedi di lunghezza, distrugge la testa del ponte sulla sponda degli Ubi. All'estremità del ponte, costruisce una torre di quattro piani, lasciando a difesa del medesimo una guarnigione di dodici coorti e munendo il luogo con salde fortificazioni. Assegna il comando della zona e della guarnigione al giovane C. Volcacio Tullo. Cesare, invece, non appena il grano cominciava a maturare, partì per muovere guerra ad Ambiorige, attraverso la selva delle Ardenne, la più estesa di tutta la Gallia: dalle rive del Reno e dalle terre dei Treveri giunge fino alla regione dei Nervi, per oltre cinquecento miglia di lunghezza. Manda in avanscoperta L. Minucio Basilo alla testa di tutta la cavalleria, perché traesse vantaggio dalla rapidità della marcia e dalle occasioni favorevoli. Lo ammonisce a vietare i fuochi nell'accampamento, perché da lontano non si scorgessero indizi del suo arrivo, e gli garantisce che si sarebbe spinto subito dietro di lui.

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[30] Basilo si attiene agli ordini. Coperta la distanza rapidamente e mentre nessuno se lo aspettava, coglie di sorpresa molti nemici ancora nei campi. Grazie alle loro indicazioni, punta su Ambiorige stesso, dirigendosi nel luogo in cui si trovava - così dicevano - con pochi cavalieri. La Fortuna ha un gran peso in tutto, specie nelle operazioni militari. Infatti, se per un caso davvero propizio Basilo poté piombare su Ambiorige stesso cogliendolo alla sprovvista e impreparato (videro di persona l'arrivo del Romano prima che ne giungesse voce o notizia), d'altro canto fu una vera combinazione se il Gallo riuscì a sottrarsi alla morte, pur perdendo tutto il suo equipaggiamento militare, i carri e i cavalli. Ed ecco come andò: la sua casa era circondata da un bosco, come spesso le abitazioni dei Galli, che, per evitare il caldo, in genere cercano luoghi vicini a fiumi o selve. Così, i suoi compagni e servi, in una stretta zona d'accesso, ressero per un po' al nostro assalto. Mentre essi combattevano, uno dei suoi lo fece salire a cavallo: le selve ne protessero la fuga. Così, la Fortuna ebbe un ruolo determinante prima nel metterlo in pericolo, poi nel salvarlo.

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[31] Non è chiaro se Ambiorige non avesse raccolto le sue truppe di proposito, non ritenendo opportuno uno scontro aperto, oppure se gli fosse mancato il tempo e glielo avesse impedito l'arrivo improvviso della cavalleria, che credeva seguita dal resto dell'esercito. L'unica cosa certa è che inviò messi nelle campagne con l'ordine di pensare ciascuno per sé. Alcuni dei suoi si rifugiarono nella selva delle Ardenne, altri nelle paludi interminabili. Chi viveva nei pressi dell'Oceano riparò nelle isole che le maree sono solite formare. Molti, poi, abbandonati i propri territori, affidarono se stessi, con ogni avere, a genti del tutto estranee. Catuvolco, re di una metà degli Eburoni, che aveva assunto l'iniziativa insieme ad Ambiorige, era ormai sfinito dagli anni e non poteva reggere le fatiche di una guerra o di una fuga. Perciò, dopo aver maledetto con ogni sorta d'imprecazioni Ambiorige, l'ideatore del piano, si tolse la vita con il tasso, una pianta molto diffusa in Gallia e in Germania.

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[32] I Segni e i Condrusi, popoli di stirpe germanica e tali ritenuti, che abitano tra gli Eburoni e i Treveri, mandarono a Cesare un'ambasceria per pregarlo di non considerarli nemici e di non credere che tutti i Germani stanziati al di qua del Reno avessero fatto causa comune: essi non avevano pensato alla guerra, né inviato ad Ambiorige rinforzi. Cesare, accertato come stavano le cose interrogando i prigionieri, comandò ai Segni e ai Condrusi di ricondurgli eventuali fuggiaschi degli Eburoni giunti nelle loro terre; se avessero eseguito l'ordine, non avrebbe violato i loro territori. Quindi, divise in tre corpi le sue truppe e ammassò le salmerie di tutte le legioni ad Atuatuca. È il nome di una fortezza che si trova circa al centro dei territori degli Eburoni, dove Titurio e Aurunculeio avevano posto i quartieri d'inverno. Tra gli altri motivi, Cesare approvava la scelta del luogo soprattutto perché erano ancora intatte le fortificazioni dell'anno precedente, così avrebbe risparmiato fatica ai soldati. A presidio delle salmerie lasciò la quattordicesima legione, una delle tre che, arruolate di recente, aveva condotto dall'Italia. Affidò il comando della legione e del campo a Q. Tullio Cicerone, assegnandogli duecento cavalieri.

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[33] Suddiviso l'esercito, ordina a T. Labieno di partire con tre legioni verso l'Oceano, puntando sulle terre al confine con i Menapi. Alla testa di altrettante legioni invia C. Trebonio a devastare i territori contigui agli Atuatuci. E lui stesso decide di muoversi, con le tre restanti legioni, in direzione della Schelda, un fiume che si getta nella Mosa, e verso le parti più lontane delle Ardenne, dove, stando alle voci, era riparato Ambiorige con pochi cavalieri. Al momento della partenza, assicura che sarebbe rientrato di lì a sette giorni, data stabilita per distribuire il grano alla legione di presidio in Atuatuca. Invita Labieno e Trebonio, se ciò non nuoceva agli interessi di stato, a rientrare lo stesso giorno: tenuto ancora consiglio e analizzate le intenzioni del nemico, avrebbero potuto riprendere, su nuove basi, le ostilità.

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[34] I nemici, come abbiamo detto in precedenza, non avevano un esercito regolare, una fortezza, un presidio che si difendesse con le armi: erano una massa di uomini sparsi ovunque. Ciascuno si era appostato dove una valle nascosta, una zona boscosa, una palude impraticabile offriva una qualche speranza di difesa o di salvezza. Erano luoghi ben noti agli abitanti della zona, e la situazione richiedeva la massima prudenza, non tanto per proteggere il grosso dell'esercito (nessun pericolo, infatti, poteva nascere, per le nostre truppe riunite, da nemici atterriti e sparpagliati), quanto per tutelare i singoli legionari, cosa che comunque, in parte, riguardava la sicurezza di tutto l'esercito. Infatti, l'avidità di bottino spingeva molti ad allontanarsi troppo, e le selve, dai sentieri malsicuri e poco visibili, impedivano ai nostri la marcia in gruppo. Se si voleva portare a termine l'operazione e annientare quella stirpe di canaglie, era necessario distaccare diversi gruppi in varie direzioni e dividere i soldati; se, invece, si sceglieva di tenere i manipoli sotto le insegne, come richiesto dalla regola e dall'uso dell'esercito romano, la zona stessa avrebbe protetto i barbari, ai quali non mancava l'audacia, per quanto isolati, di tendere imboscate e di circondare i nostri che si fossero disuniti. Così, di fronte a tali difficoltà, si provvide con tutta l'attenzione possibile: si rinunciò perfino a qualche occasione di nuocere al nemico, sebbene tutti bruciassero dal desiderio di vendetta, piuttosto che farlo a prezzo di nostre perdite. Cesare invia messi ai popoli confinanti, li fa venire presso di sé e li spinge, con la speranza di bottino, a saccheggiare le terre degli Eburoni: voleva che fossero i Galli, non i legionari, a rischiare la vita nelle selve e che, al tempo stesso, in seguito all'affluire di una simile massa, venissero annientati, come prezzo per la loro colpa, gli Eburoni, nome e stirpe. Da ogni regione accorre ben presto una gran folla.

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[35] Ecco cosa succedeva in ogni parte del territorio degli Eburoni, e intanto si avvicinava il settimo giorno, fissato da Cesare per il suo ritorno alle salmerie e alla legione di presidio. In questa circostanza si poté constatare il peso della Fortuna in guerra e quali inattesi eventi essa produca. I nemici erano dispersi e atterriti, lo abbiamo visto; non vi erano truppe in grado di dare il benché minimo motivo di preoccupazione. Ai Germani, al di là del Reno, giunge voce che le terre degli Eburoni venivano saccheggiate e che, anzi, tutti erano chiamati a far bottino. I Sigambri, popolo vicino al Reno, che avevano accolto - lo abbiamo riferito in precedenza - i Tenteri e gli Usipeti in fuga, radunano duemila cavalieri. Passano il Reno su imbarcazioni e zattere, trenta miglia più a sud del punto in cui era stato costruito il ponte e dove Cesare aveva lasciato il presidio. Varcano la frontiera degli Eburoni, raccolgono molti sbandati, si impossessano di una gran quantità di capi di bestiame, preda ambitissima dai barbari. Attratti dal bottino, avanzano. Né la palude, né le selve frenano questi uomini nati tra guerre e saccheggi. Ai prigionieri chiedono dove sia Cesare; scoprono, così, che si è molto allontanato e che tutto l'esercito è partito. Allora uno dei prigionieri "Ma perché - dice - vi accanite dietro a questa preda misera e meschina, quando potreste essere già ricchissimi? Atuatuca è raggiungibile in tre ore di marcia: lì l'esercito romano ha ammassato tutti i propri averi. I difensori non bastano neppure a coprire il muro di cinta e nessuno osa uscire dalle fortificazioni". Di fronte a una tale occasione, i Germani nascondono la preda già conquistata e puntano su Atuatuca, sotto la guida dell'uomo che li aveva informati.

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[36] Cicerone, in tutti i giorni precedenti, secondo le disposizioni di Cesare, aveva trattenuto con molto scrupolo i soldati nell'accampamento, senza permettere che neppure un calone uscisse dalle fortificazioni. Ma il settimo giorno, non avendo fiducia che Cesare sarebbe stato puntuale come aveva promesso (giungevano, infatti, voci che si era spinto ancor più lontano e non si avevano notizie sul suo ritorno) e turbato, al tempo stesso, dalle critiche di chi definiva la sua pazienza una sorta di assedio, in quanto a nessuno era concesso di uscire dal campo, stima che, nel raggio di tre miglia, i suoi non avrebbero corso alcun pericolo: il nemico, già sbandato e pressoché distrutto, aveva di fronte nove legioni e una fortissima cavalleria. Così, invia cinque coorti a far provvista di grano nei campi più vicini, che un unico colle separava dall'accampamento. Con Cicerone erano rimasti, dalle varie legioni, parecchi malati; i soldati guariti in quell'arco di tempo, circa trecento, formano un distaccamento e vengono mandati con gli altri. E, poi, ottenuto il permesso, li seguono anche molti caloni con un gran numero di bestie da soma, che erano rimaste al campo.

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[37] Proprio in questo momento e frangente sopraggiungono i cavalieri germani, che, proseguendo senza rallentare l'andatura, tentano un'irruzione dalla porta decumana. Essendo coperti, su quel lato, dalle selve, vengono scorti solo quando erano ormai nei pressi del campo, al punto che i mercanti, attendati ai piedi del vallo, non hanno neppure modo di rifugiarsi all'interno. I nostri, colti alla sprovvista, rimangono scossi dall'evento inatteso, e la coorte di guardia riesce a respingere a malapena il primo assalto. I Germani si spargono tutt'intorno, nella speranza di trovare un adito. I nostri difendono a stento le porte, per il resto l'accesso era impedito solo dalla posizione naturale e dalle fortificazioni. In tutto il campo regna la confusione, ci si domanda l'un l'altro la causa del tumulto: non si pensa a disporre le insegne, né a indicare dove ciascuno debba radunarsi. Chi sostiene che il campo è già caduto, chi afferma che i barbari sono giunti vittoriosi, dopo aver annientato il nostro esercito e ucciso il comandante. La maggior parte si inventa nuove superstizioni sulla base del luogo, rievocando il massacro di Cotta e Titurio, avvenuto proprio lì. Poiché tutti erano terrorizzati da tali paure, i barbari si rafforzano nell'idea che, come aveva detto il prigioniero, all'interno non c'era alcuna guarnigione. Cercano di sfondare e si spronano a vicenda a non lasciarsi sfuggire dalle mani un'occasione così splendida.

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[38] Al campo, con la legione di presidio, era rimasto, malato, P. Sestio Baculo, che sotto Cesare aveva rivestito la carica di centurione primipilo e di cui abbiamo parlato nelle battaglie precedenti: già da cinque giorni non toccava cibo. Disperando della salvezza sua e di tutti, esce disarmato dalla tenda. Vede che i nemici incombevano e che il momento era molto critico: si fa consegnare le armi dai soldati più vicini e si piazza sulla porta. A lui si uniscono i centurioni della coorte di guardia; per un po' reggono agli assalti, insieme. Poi Sestio, gravemente ferito, sviene: lo traggono in salvo a stento, passandolo di braccia in braccia. Ma nel frattempo gli altri si rinfrancano, tanto che osano attestarsi sui baluardi e danno l'impressione di una vera guarnigione.

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[39] In quel mentre, i nostri, terminata la raccolta di grano, odono i clamori: i cavalieri accorrono, si rendono conto della gravità della situazione. Ma qui non c'era nessun riparo che potesse accogliere gente in preda al panico: soldati appena arruolati e privi di esperienza militare, rivolgono gli occhi al tribuno e ai centurioni, aspettano i loro ordini. Ma anche i migliori erano sconvolti dagli eventi inattesi. I barbari, scorgendo in lontananza le insegne, cessano l'assedio: dapprima pensano al rientro delle legioni che, su informazione dei prigionieri, sapevano lontane; poi, disprezzando lo scarso numero dei nostri, li attaccano da ogni lato.

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[40] I caloni corrono sul rialzo più vicino. Ben presto scacciati, si precipitano tra le insegne e i manipoli, seminando ancor più scompiglio tra i legionari impauriti. Dei nostri c'era chi consigliava di formare un cuneo per aprirsi rapidamente un varco, data la vicinanza del campo: anche se qualcuno, accerchiato, soccombeva, certo gli altri sarebbero riusciti a mettersi in salvo. E chi, invece, era dell'avviso di attestarsi sul colle e di affrontare tutti lo stesso destino. I veterani - abbiamo detto che si erano aggregati come distaccamento - non approvano quest'ultima soluzione. Così, si incoraggiano a vicenda e, sotto la guida di C. Trebonio, cavaliere romano, loro comandante, forzano al centro la linea nemica e, sani e salvi dal primo all'ultimo, raggiungono tutti l'accampamento. Alle loro spalle si lanciano nello stesso attacco i caloni e i cavalieri e vengono salvati dal valore dei veterani. Gli altri, invece, rimasti in cima al colle, soldati ancora privi di qualsiasi esperienza militare, non seppero attenersi alla decisione da loro stessi approvata, cioè di difendersi dall'alto del colle, né imitare la forza e la rapidità che avevano visto procurare ai loro compagni la salvezza, ma, nel tentativo di ripiegare verso il campo, scesero su un terreno sfavorevole. I centurioni, alcuni dei quali, per il loro valore, erano stati promossi dagli ordini inferiori delle altre legioni agli ordini superiori di questa, caddero sul campo, combattendo con straordinario coraggio, per non perdere l'onore delle armi che si erano prima conquistati. Parte dei soldati, mentre i nemici venivano respinti dal valore dei centurioni, contro ogni speranza raggiunse salva l'accampamento, parte fu circondata dai barbari e uccisa.

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[41] I Germani, persa la speranza di espugnare il campo, poiché vedevano i nostri ormai ben saldi sui baluardi, si ritirarono oltre il Reno con il bottino che avevano nascosto nelle selve. E anche dopo la partenza dei nemici, i nostri rimasero così atterriti, che C. Voluseno, quando giunse, quella notte stessa, al campo con la cavalleria, non riuscì a far credere che Cesare stesse arrivando con l'esercito indenne. Il panico si era impadronito degli animi di tutti al punto che erano quasi usciti di senno: dicevano che l'esercito era stato annientato e che la cavalleria era riuscita a salvarsi fuggendo, sostenevano che, se l'esercito non fosse stato distrutto, i Germani non avrebbero attaccato il nostro campo. L'arrivo di Cesare dissolse ogni paura.

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[42] Appena rientrato, Cesare, ben sapendo come vanno le cose in guerra, si lamentò solo di un fatto, che le coorti fossero state spedite fuori dalla guarnigione e dal presidio: non bisognava lasciare al caso il benché minimo spazio. Giudicò determinante il ruolo della Fortuna nel repentino attacco nemico, ma ancor più nel respingere i barbari quasi dal vallo e dalle porte dell'accampamento. Tra tutte le circostanze, però, la più singolare gli parve che i Germani, varcato il Reno con l'intenzione di saccheggiare i territori di Ambiorige, si fossero, poi, volti contro l'accampamento dei Romani, rendendo ad Ambiorige stesso il beneficio più desiderato.

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[43] Cesare ripartì con lo scopo di devastare i territori nemici e, radunati forti contingenti di cavalleria dai popoli limitrofi, li invia in ogni direzione. Tutti i villaggi, tutti gli edifici isolati, appena scorti, erano dati alle fiamme, gli animali venivano sgozzati, si faceva razzia ovunque, il grano non lo consumavano solo i moltissimi giumenti e soldati, ma cadeva anche nei campi per la stagione avanzata e le piogge. Così, se anche qualcuno, al momento, era riuscito a nascondersi, sembrava tuttavia destinato, dopo la partenza dell'esercito romano, a morte sicura, per totale mancanza di sostentamento. E, suddivisa e inviata la cavalleria in tutte le direzioni, più d'una volta si giunse al punto che i prigionieri cercassero con gli occhi Ambiorige, che avevano appena scorto in fuga, e sostenessero che non poteva essere già fuori di vista. I cavalieri speravano di catturarlo e si impegnavano senza respiro, ritenendo di poter entrare nelle grazie di Cesare, e con il loro zelo piegavano, per così dire, la natura, ma, a quanto pareva, si trovavano sempre a un passo dal successo. Ambiorige si sottraeva alla caccia rifugiandosi in anfratti o boscaglie, con il favore delle tenebre si spostava in altre regioni e zone, senz'altra scorta che quattro cavalieri, i soli a cui osasse affidare la propria vita.

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[44] Devastate in tal modo le regioni, Cesare conduce l'esercito, che aveva subito la perdita di due coorti, a Durocortoro, città dei Remi. Qui convoca l'assemblea della Gallia e decide di aprire un'inchiesta sulla cospirazione dei Senoni e dei Carnuti. Accone, responsabile del piano di sollevazione, fu condannato alla pena capitale e giustiziato secondo l'antico costume dei nostri padri. Alcuni, temendo il processo, fuggirono. Cesare li condannò all'esilio. Sistemò nei quartieri invernali due legioni presso i Treveri, due nelle terre dei Lingoni, le altre sei nella regione dei Senoni, ad Agedinco. Dopo aver provveduto alle scorte di grano per l'esercito, partì alla volta dell'Italia, come suo solito, per tenervi le sessioni giudiziarie.

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